Per quanto, alla fine, gli italiani alle politiche nazionali ci vadano (nel 2013 votò il 75,19% degli aventi diritto), per il prossimo 4 marzo i sondaggi non lasciano ben sperare. E le tornate amministrative locali sono da tempo un pianto. Basti pensare all’ultimo appuntamento importante, quello siciliano: alle regionali che hanno incoronato Nello Musumeci ha votato appena il 46,76% degli elettori. In generale, volendo lanciare lo sguardo un po’ più in profondità, è dagli anni Settanta che il fenomeno dell’astensionismo è ormai un convitato di pietra a (quasi) ogni chiamata alle urne. Dall’inizio della crisi dei partiti politici, la “questione morale” sollevata da Enrico Berlinguer? Forse.
Basti pensare che alle politiche del 1976, le prime col voto ai diciottenni, l’affluenza fu davvero bulgara: 93,4%. Cifre incredibili che si erano mosse sui quei livelli dal secondo dopoguerra. Poi, appunto, il progressivo calo – con eccezioni perlopiù per le politiche – che comunque hanno condotto a una situazione per cui circa il 25/30% dei cittadini non si reca alle urne. Zero. Se si considerano i ballottaggi, per esempio per i sindaci, spesso si finisce abbondantemente sotto il 50% (a Roma, per esempio, al secondo turno votò nel 2016 il 51%, a Napoli il 35, la media nelle principali città italiane dice 50%).
Insomma, il cosiddetto “partito del non voto” è forse il vero nemico di liste e partiti in competizione. Oltre che del Paese. Leader e professionisti dello scranno, tuttavia, non sembrano capire come, più che strapparsi i consensi in una platea sensibilmente mutilata, dovrebbero cercare di invertire la china iniziata con la moltiplicazione delle formazioni fra anni Settanta e Ottanta e la loro proporzionale perdita di appeal, integrità, coerenza politica. Oltre che capacità di fornire posizioni precise e personale preparato evitando tripli carpiati di autoconservazione.
Prendiamo l’ultimo sondaggio, quello della scorsa settimana realizzato da Emg per La 7. L’astensionismo è indicato al 33% – siamo dunque intorno alle percentuali di sempre: uno su tre non andrà a votare. Oggi ci pare la regolarità ma come abbiamo visto, anche voltandoci verso una trentina di anni fa, è una ferita lacerante nel tessuto sociale italiano. E lo è non tanto per la cifra in sé quanto perché dimostra la totale sfiducia nei confronti della politica. Della sua capacità di ascolto.
Prima, almeno, c’era il voto di protesta, la voglia di sparigliare le carte, di mandare un segnale forte ai politici, di farsi sentire partecipando alla liturgia laica democratica. Adesso l’elettrocardiogramma è piatto. Da una fetta preoccupante e molto vasta di concittadini non arriva alcun sussulto vitale. Gente per bene, gente come noi, gente come voi, forse non la maggioranza silenziosa ma quasi. Che non sa scegliere perché nulla le appare degno di essere scelto, confuso com’è nel fritto misto di alleanze Brancaleone che non garantiscono nulla se non le poltrone che distribuiscono.
Tant’è che negli ultimi anni, grazie alla pressione dei partiti maggiori, si è affermato il ritornello del “voto utile”. Cioè quel voto che, indirizzato verso una coalizione, le consenta di confrontarsi al meglio con le altre in corsa, evitando di disperdere la preferenza su partiti e partitini strampalati (a proposito, sono stati approvati ben 75 simboli dal ministero dell’Interno, c’è pure W la Fisica ma il quadro è più caotico che mai).
La sensazione che è che gli elettori leggano quell’invito proprio al contrario, vale a dire secondo la logica del “voto inutile”, ceduto al marasma di coalizioni improvvisate o di populismi assortiti. D’altronde in un contesto di astensionismo diffuso anche il consenso alle formazioni “antisistema“, com’è (com’era?) quello del Movimento 5 Stelle, va preso con le pinze: rimane comunque l’espressione di attivismo di una ridotta porzione degli elettori. Il risultato non è, come si affrettano a ripetere tutti i colonnelli di partito in queste settimane, che “non vincerà nessuno“. Ma che chiunque vincerà lo farà, comunque vada e chiunque sia, con un numero di voti inferiore a quello della maggioranza assoluta teorica se l’affluenza fosse elevata, per non dire totale.
Mentre la sfida autentica sarebbe far riscoprire al Paese il gusto della partecipazione politica e della manifestazione di un diritto conquistato col sangue. Troppe volte svuotato di senso da una politica che da tanto tempo non incassa più neanche la protesta. Ma l’indifferenza.
Fonte: wired.it | Autore: Simone Cosimi