Si pubblica l’articolo di lettera43.it, scritto da Gianluca Comin – Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma.
Di molti prodotti ricordiamo lo slogan ancora prima di identificarne la marca o le qualità distintive. Merito di uno spot particolarmente efficace, entrato nell’immaginario collettivo o fissato nella mente di milioni di consumatori per via del coinvolgimento di un testimonial indovinato, dell’utilizzo di una canzone orecchiabile o anche solo di un jingle ripetuto costantemente. Slogan di poche parole o basati su acrobazie linguistiche, giocosi oppure volutamente solenni. Tutti accomunati dall’incredibile capacità di durare nel tempo, di “appiccicarsi” ad un brand, di determinarne il successo anche a distanza di anni dall’effettivo lancio della campagna.
IN PRINCIPIO FU GUARESCHI. Certo, gli slogan elettorali non hanno goduto, nella loro storia, della stessa fama. Ci sono state piuttosto espressioni divenute proverbiali come il celeberrimo «Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no» (creato da Giovannino Guareschi) o l’amara constatazione del 1976 di un grande del giornalismo come Indro Montanelli («Turatevi il naso ma votate Dc»), peraltro citata di recente in un’intervista da Matteo Renzi. In tempi più recenti, ha fatto scuola la dichiarazione con cui Silvio Berlusconi annunciava la sua discesa in campo nel 1994 («L’Italia è il Paese che amo»), a cui si contrappose Romano Prodi con il suo slogan «La serietà al governo», presto rintuzzato dal «Rialzati Italia!» dello stesso Cavaliere.
Non erano i tempi dei social network che stanno diventando come la coperta di Linus a cui candidati e spin doctor si attaccano quando non hanno idee, come se lo strumento fosse più importante del contenuto che deve trasmettere. E allora vediamoli gli slogan di questa breve e invernale campagna elettorale e immaginiamo cosa ne resterà dopo il 4 di marzo? Quali saranno le frasi programmatiche che citeremo ancora fra un paio d’anni?
SULLE ORME DI RUTELLI. Liberi e Uguali, la formazione di sinistra che candida a premier il Presidente del Senato Pietro Grasso, ha l’intento sin dal nome di mettere in evidenza i valori in cui si riconosce il movimento. Questa stessa area politica si era identificata in un recente passato con l’arcobaleno (peraltro nel simbolo dell’Unione con cui Romano Prodi governò nel 2006-2008) oppure con la sola parola «Sinistra» e il colore rosso. LeU rievoca nel simbolo il rosso delle formazioni precedenti e ha impostato l’intera campagna elettorale, oltre che sulla figura autorevole di un ex magistrato come Grasso, sullo slogan: «Per i molti, non per i pochi». Un richiamo molto chiaro e facilmente identificabile alla recente campagna elettorale del laburista inglese Jeremy Corbyn, il leader che ha riportato il partito che fu di Tony Blair verso posizioni di sinistra più intransigenti. Uno slogan molto simile, paradossalmente, venne utilizzato all’inizio degli Anni Duemila dall’allora candidato dell’Ulivo Francesco Rutelli, una figura certo più moderata del combattivo sfidante di Theresa May. Origini a parte, la frase distintiva scelta da LeU ha avuto il merito di connotare in modo univoco un cartello elettorale nato da una scissione del Partito Democratico e a supporto di una figura non eccessivamente politicizzata come la seconda carica dello Stato.
Nel Pd, a differenza del 2013 (un sorridente Bersani in maniche di camicia, in rappresentanza di un’Italia «giusta»), questa volta il candidato premier scompare dai manifesti
Diverso il caso del Partito Democratico. A differenza del 2013 (un sorridente Pierluigi Bersani in maniche di camicia, in rappresentanza di un’Italia «giusta»), questa volta il candidato premier scompare dai manifesti. La situazione è sicuramente inedita (il Pd esprime il Presidente del Consiglio Gentiloni ma è guidato dal segretario Renzi) e ha permesso agli strateghi del Nazareno di incentrare la campagna sui temi che caratterizzano chi è chiamato a votare il centrosinistra: l’attenzione per il lavoro, l’ambiente, l’Europa, la scienza, la cultura. Sfumata la scelta personale, schierarsi con il Partito Democratico diventa una scelta di campo in nome di una certa idea del Paese e delle sue priorità. Lo stesso si può dire per la formazione di Emma Bonino. Popolarissima da sempre ma spesso delusa dai risultati elettorali, la leader radicale ha puntato su un movimento che è esplicito sin da titolo: “Più Europa”. Un’identità grafica elegante che, giocando sul segno del più, dà un buon risalto a slogan molto diretti sulla necessità di contrastare l’odio e sui benefici dell’appartenenza al progetto europeo.
L’AMERICANISMO DI SALVINI. Il centrodestra, che ha visto il ritorno di Berlusconi, si mantiene perlopiù fedele a se stesso. Forza Italia, rispolverato il brand degli Anni 90 dopo la fase del Popolo della Libertà, si è mo.ssa con molto dinamismo per imporre nel dibattito pubblico un’espressione facile da memorizzare e ripetere: «flat tax». Una riedizione aggiornata del “meno tasse per tutti” che ne ha sancito decenni di successi con la regia dello stratega Antonio Palmieri. Lo stesso spirito (concetti chiari e facilmente condivisibili) che anima la comunicazione su Twitter di Berlusconi, attivissimo soprattutto negli ultimi mesi, e i manifesti da poco riapparsi nelle strade: «Onestà, esperienza, saggezza». Un modo per valorizzare in poche parole gli elementi distintivi di un candidato «che sa quello che si deve fare» in un passaggio contrassegnato da incertezze e timori. Più identitari gli slogan dei potenziali alleati di governo: il richiamo al patriottismo e alla destra storica nel simbolo e negli slogan di Fratelli d’Italia, il ritorno dello scudo crociato per i centristi di «Noi con l’Italia» e il prevalere del blu nella Lega di Matteo Salvini, che ne rilancia l’ambizione a premier con cartelli all’americana che sembrano strizzare l’occhio a Trump.
«PARTECIPA, SCEGLI, CAMBIA». Infine, il Movimento 5 Stelle: simbolo invariato, un richiamo a «Luigi Di Maio Presidente» con barra laterale gialla, lo slogan «Partecipa, scegli, cambia» a lettere cubitali. A prevalere è la call to action rivolta agli elettori, con l’intento di essere fino in fondo «portavoce» all’interno delle istituzioni. Personalismo temperato, messaggi semplici ed incisivi sulla propria visione del Paese, il desiderio di comunicare innanzitutto una «scelta di campo». Il 4 marzo sapremo quale di questi slogan è stato il più mobilitante ed efficace.