Che fine ha fatto il Pd? Ecco i risultati di una comunicazione sbagliata

Che fine ha fatto il Pd? Ecco i risultati di una comunicazione sbagliata

Il rapporto conflittuale col comunicare, un’identità quasi assente, le lotte intestine: come il partito progressista italiano si è fatto del male da solo, secondo gli esperti Giovanna Cosenza e Marco Cacciotto

 

Dalla prudenza di Walter Veltroni all’evanescenza di Maurizio Martina, passando per la refrattarietà dell’ormai ex Pierluigi Bersani e il protagonismo di Matteo Renzi. Per oltre un decennio a detta dei commentatori la gestione della comunicazione è stata, a fasi alterne, il più grave dei problemi o la più straordinaria delle risorse per il Partito democratico e i segretari che si sono succeduti alla sua guida. Con la corsa alle primarie ormai ai blocchi di partenza, abbiamo provato a chiedere a due esperti di comunicazione politica – Giovanna Cosenza, docente dell’Università di Bologna, fresca di pubblicazione del volume Semiotica e comunicazione politica per Laterza e Marco Cacciotto, political strategist con una cattedra all’università di Torino – come abbia fatto il più grande partito di centrosinistra a finire nell’angolo buio di una narrazione che lo vede come principale (se non unico, spesso) responsabile di tutto ciò che è andato storto nell’ultimo decennio, e se da quell’angolo sia ancora possibile ripartire.

Ma andiamo con ordine.

L’ossessione del comunicare

Scena uno, 4 luglio 2017: da qualche mese Matteo Renzi è tornato alla guida del Partito democratico, ruolo che aveva abbandonato all’indomani del deludente risultato ottenuto nel referendum costituzionale di dicembre 2016. Tra i primi punti della sua agenda spicca la lotta alle fake news e il riassetto della macchina comunicativa del partito, fino a quel momento poco performante agli occhi del neo segretario.

Mi sono accorto che non sempre riusciamo a comunicare le cose che facciamo come vorremmo” scriveva Renzi su Facebook.Per questo anziché rincorrere le urla, le polemiche, gli insulti stiamo facendo uno sforzo certosino per raccontare quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo”. È il prologo di un cambio ai vertici della comunicazione, con Matteo Richetti scelto come nuovo responsabile della segreteria al posto di Alessio De Giorgi.

Scena due, 5 agosto 2018: Nicola Zingaretti lancia la sua lunga volata verso la candidatura alla segreteria nazionale del Pd con un intervento pubblicoalla festa dell’Unità di Villalunga di Casalgrande. Il presidente della regione Lazio spiega come tra le priorità del suo partito debba esserci proprio la gestione della comunicazione e in particolare il modo di stare sul web: “La prima cosa da fare è utilizzare in modo intelligente la rete” spiega Zingaretti, intervistato sul palco della kermesse, “è giusto avere un partito radicato nei territori, ma dobbiamo diventare i migliori e i più bravi anche nella battaglia delle idee sulla rete”. Il 14 ottobre Nicola Zingaretti ufficializza la sua decisione di partecipare alle primarie del Pd, contro di lui correranno altri cinque candidati, tra cui il segretario uscente Maurizio Martina e l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti.

In mezzo a queste due scene, più o meno l’apocalisse: il Pd si è risvegliato dalla lunga notte del 4 marzo con il 19% dei consensi e dieci milioni di voti in meno rispetto a quelli ottenuti alla sua fondazione. “Il Pd sconta il fatto di essere stato percepito come il partito di governo dell’ultimo ventennio, pagando spesso anche colpe che non ha” spiega Cacciotto, che tra le altre cose in passato ha ricoperto il ruolo di segretario dell’associazione dei consulenti politici – “È diventato l’establishment persino agli occhi di molti che un tempo erano suoi elettori”. Il congresso che eleggerà il prossimo segretario del partito si terrà a un anno esatto dal tonfo elettorale, ma per Cacciotto non è mischiando le carte che si troverà la soluzione: “Il rischio è la personalizzazione. In casi come questo l’uomo deve seguire il progetto e il Pd, al momento, un progetto non ce l’ha. Non comunica una visione di paese, si limita a parlare di competenza, ma deve trovare una proposta forte, da raccontare in maniera chiara. La Lega ha la sicurezza, il Movimento 5 Stelle il reddito di cittadinanza. Il Pd cos’ha?”.

Tutti i problemi del Pd, dall’identità alle lotte interne

Il Pd al momento è sospeso in una fase congressuale permanente, che si avvia verso le battute finali, ma che secondo la professoressa Giovanna Cosenza ha pregiudicato pesantemente l’immagine del partito agli occhi del suo elettorato: “I candidati alle primarie del Partito democratico non stanno comunicando nulla agli elettori, stanno parlandosi tra loro, non si rivolgono al pubblico. L’immagine che associo al Pd in questo momento è quella di unfortino chiuso, in cui ogni tanto dalle finestre volano stracci”.

I nomi che fino a questo momento hanno deciso di ufficializzare la propria candidatura alla segreteria del Partito democratico, oltre ai già citati Zingaretti, Minniti e Martina, sono quelli di Francesco Boccia – esponente della minoranza che nello scorso congresso era rappresentata da Michele Emiliano – Cesare Damiano, ex sindacalista e ministro del Lavoro del governo Prodi e Dario Corallo, outsider espresso dai Giovani democratici. In ballo non c’è solo la definitiva resa dei conti tra le correnti che in questi anni hanno inasprito il confronto interno, ma l’idea stessa di ciò che un partito progressista dovrebbe essere nel 2019. Partendo, intanto, da ciò che non dovrebbe essere: “Attenti a usare le parole altrui, se abbracci il frame dell’avversario lo rinforzi, equivale a sparire”, mette in guardia Giovanna Cosenza “Adesso lo fa Minniti, è un errore che ha già fatto Renzi ai tempi del aiutiamoli a casa loro, quando pensava che certe posizioni salviniane andassero di moda. Ma quello del centrosinistra che imita stili e contenuti della destra è un percorso lungo, iniziato con Veltroni”.

Dello stesso avviso è anche Cacciotto, che sottolinea l’importanza dei temi identitari nel dibattito politico odierno: “Oggi sulla sicurezza è più credibile il centrodestra. Non puoi puntare su quel tema, ma devi presidiarlo, far capire che è un problema che sta a cuore anche a te”. Quello del Pd, però, oggi è soprattutto un difetto di chiarezza nelle proposte: “Il reddito di cittadinanza non è così dissimile dal reddito di inclusione” spiega Cacciotto “eppure se chiedessimo alle persone della misura di sostegno del Partito democratico, appena il 10% risponderebbe di conoscerla. Ecco qual è il problema maggiore al momento”.

E ora?
Assenza di proposte caratterizzanti, scarsa chiarezza comunicativa, dibattito politico autoreferenziale. Ma se la diagnosi è questa, quale potrebbe essere la cura? Non tanto cambiare nome al partito, rispondono in coro gli esperti. “A meno che a cambiare non siano solo gli stilemi, ma anche uomini e idee”, suggerisce Cacciotto “qualcosa di simile a quanto accaduto con il New Labour inglese ai tempi di Blair. Ma per fare una cosa del genere tutti quelli in corsa dovrebbero farsi da parte, non è fattibile”.

La risposta al problema del Pd è sotto gli occhi di tutti ed è ciò che sta accadendo nell’attuale governo: una leadership condivisa”, propone la professoressa Cosenza. “Quando Di Maio alza la voce, Salvini rassicura. Quando lo fa Salvini è Conte ad arrivare a placare gli animi. La prima sperimentazione di poli-leaderismo è sotto i nostri occhi, adesso. E funziona”. Le fa eco Cacciotto: “Ci vuole una leadership diversa, più condivisa, capace di trovare sintesi. Ci vuole una figura forte, ma non solitaria”. Per ripartire al Partito democratico forse non serve la prudenza di Veltroni, né l’evanescenza di Martina, la refrattarietà di Bersani e nemmeno il protagonismo di Matteo Renzi. O magari avrebbe bisogno di tutte queste cose insieme.

Fonte: Wired. Autore: Simone Fontana

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