«Ogni loro frase è studiata anche quando sembra naturale. Per avere consenso». Il parere di Luca Serianni e Giuseppe Antonelli
Sberleffi, dialettismi, gergalismi. E improperi a raffica: pennivendoli-puttane-infimisciacalli-zingaridimerda. Non è la morte della lingua annunciata da Pasolini. E non è neppure l’avvento dell’antilingua, burocratica e avulsa dalla concretezza, prevista da Calvino, anzi. Ma che lingua è? Di che politica è espressione? E che Paese racconta? Lo abbiamo domandato a due dei più autorevoli esperti d’Italiano: il filologo Luca Serianni, che ha insegnato a generazioni di studenti la Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, e Giuseppe Antonelli, ordinario di Linguistica all’Università di Cassino e attento osservatore del linguaggio della politica.
Con sconforto, con preoccupazione, con curiosità: come state seguendo l’involuzione della lingua nel discorso politico attuale?
LUCA SERIANNI. «Decisamente con interesse. Il meccanismo della politica di rispecchiare la gente, anziché rappresentare un modello, è cominciato da anni. Perciò non mi stupisce. Mi meraviglia, invece, il livello di aggressività che la lingua esprime: le conseguenze possono essere gravi. E la cronaca ci racconta di atteggiamenti aggressivi impensabili un tempo. Certamente è un portato della maggiore esplicitezza del linguaggio. Ricordo le tribune elettorali degli anni Sessanta, i giornalisti che si alzavano per le domande, le polemiche e il rispetto. Tutto perso, e non a vantaggio di una maggiore chiarezza: abbiamo solo un minore controllo. Il controllo, nel discorso pubblico, che dovrebbe essere attento a non ferire sensibilità diverse, è importantissimo. Siamo agli antipodi di quella che era la prosa politica di Aldo Moro”.
E’ la lingua della piazza. “Eccessi linguistici, ma ci sta” ha detto il premier Conte. Quando è espressione di governo anche la lingua dovrebbe farsi più responsabile?
SERIANNI: Dovrebbe misurare le parole. Anche per una questione di educazione, che è anche abituarsi a reprimere l’aggressività che è in ciascuno di noi, i malumori a cui siamo soggetti. C’è da chiedersi, però, quanto l’aggressività sia un semplice lasciarsi andare, e quanto sia un calcolo preciso. C’è grande consenso intorno a questo modo di parlare. L’idea che sta passando è: “Di questi politici ci si può fidare perché parlano come noi”.
GIUSEPPE ANTONELLI: “Riprenderei dal meccanismo del rispecchiamento. Tutto è cominciato con Berlusconi, che ha applicato alla comunicazione politica il meccanismo di quella pubblicitaria: non mi pongo come modello positivo, superiore, fingo di pormi al livello dell’interlocutore. Gli piaccio non perché lo rassicuro in quanto più bravo di lui, ma proprio perché ho gli stessi difetti, anche linguistici. le stesse debolezze, anche linguistiche, che può avere lui. Ora mi sembra che siamo andati oltre: questo specchio è diventato uno specchio deformante, non ci si accontenta più di rispecchiare le debolezze, la mediocrità di lingua di tutti i giorni, ma si attinge al livello più basso della lingua di tutti i giorni. Come uno specchio che restituisce agli italiani il peggio del loro modo di parlare. E crea un circolo vizioso: la gente si sente autorizzata a usare l’insulto perché lo fanno i leader. Non stupisce più: tutt’altro che ovvio. Quando Berlusconi raccontava barzellette scorrette, c’era ancora una parte dell’opinione pubblica che si scandalizzava. A forza di andare oltre, ci siamo anestetizzati. Consideriamo normale che i politici si esprimano così. Io credo che un elemento determinante sia stata il vaffa grillino, il momento in cui qualcosa che era relegato alla protesta anche un po’ sterile dell’uomo della strada è stato impugnato come slogan politico. Si è capovolta la situazione. Se il “vaffa” diventa slogan del partito di governo, è chiaro che il meccanismo della parolaccia in sé non è un meccanismo che desta più scandalo. Ma questo non va bene, perché invece dobbiamo indignarci”.
Parlare male come strumento politico: sono “metaparole”, proferite perché se ne parli?
ANTONELLI: “Non mi pare che il turpiloquio appartenesse alla tradizione politica di destra: c’è un’appropriazione di un elemento popolare in senso populista, da Bossi in poi. In particolare, io credo che in Salvini, per esempio, ogni parola sia soppesata per ciò che evochi e per gli effetti che ha: ogni “parola, ogni parolina, ogni parolaccia”. Quando Salvini cita Mussolini lo fa esattamente perché vuole farlo, o quando dice “me ne frego”, o “chi si ferma è perduto”. Quando recupera il dialetto milanese, per serrare i ranghi di un’identità leghista: Ofelè, fa el to mesté” o “Ciapa lì e porta a cà”. Ogni scelta linguistica è destinata a un’efficacia, a detta dei sondaggi, inoppugnabile”.
Quanto pesa l’incultura?
SERIANNI: “Secondo me è un po’ enfatizzata. Salvini ha un’esperienza notevolissima. Gli errori di congiuntivo di Di Maio possono capitare a tutti. Sono aspetti marginali. Del resto abbiamo avuto un politico che ostentava di non controllare l’italiano come Antonio Di Pietro. Ma lì c’era un preciso investimento su un’immagine ruspante. I politici in genere sono persone abbastanza consumate sul piano della comunicazione. Sanno quello che fanno. Giocano su modelli linguistici volutamente, per ottenere certi risultati di consenso. Tutto si può dire fuorché che questi politici non siano consapevoli della potenzialità delle parole”.
ANTONELLI. “Concordo, anche gli errori non è detto che siano involontari. E’ ormai assodato che lo staff di Trump, ad esempio, insegua volutamente errori di ortografia e storpiature linguistiche, per confermarne lo stile e nei confronti delle élite. L’errore è parte di un populismo linguistico. Questo non è un italiano popolare, è un italiano populista. Un italiano artificiosamente pensato per provocare degli effetti ben precisi, una contrapposizione a un uso istituzionale della lingua, per creare simpatia ed empatia. E visto che tutto si gioca sulle emozioni, con una parte della popolazione che ha poca dimestichezza con la grammatica, che la considera anzi una sovrastruttura per pochi intellettuali, funziona”.
Non è un modo di parlare che rende l’italiano, in sé una lingua artificiale e intrisa di letterarietà, più popolare. La rende solo populista.
ANTONELLI. “Sì, perché è il risultato di una operazione a freddo. La comunicazione è caricata di elementi: dialetto, modi popolareschi, errori grammaticali, parolacce. Questa ipercaratterizzazione è spia di un comportamento deliberato. L’altra questione riguarda i mezzi attraverso i quali questa lingua è utilizzata. Perché non è ininfluente che si serva dei social, un ambiente in cui ognuno si ritiene allo stesso livello del presidente del consiglio, perché teoricamente potremmo discutere con lui -sappiamo che poi questo non succede, e anzi che proprio i politici che hanno fatto un uso maggiore di questi social sono quelli che meno interagiscono. Ma è il sogno di ogni demagogo, perché gli permette di parlare direttamente con il suo elettorato. Taglia tutte le mediazioni. La definizione di Michele Serra di “Twittatura” è ovviamente un gioco di parole che allude a un pericolo non è del tutto irrelato alla situazione che stiamo vivendo”.
Dalla lingua passano i sogni, le utopie. Le lingue inventano il mondo. Che cosa racconta questa lingua dell’Italia?
SERIANNI: “Il venire meno di quella educazione che un tempo si insegnava a scuola e nelle famiglie. Educazione significa anche non lasciarsi andare, controllarsi. Il cosiddetto “spontaneismo” è un dato negativo. Bisogna imparare a circoscrivere il proprio io.Lo spontaneismo è negativo”.
ANTONELLI. Io credo che questo modo di comunicare riveli anche una grande disillusione. Scegliere di stare dalla parte dei cattivi, perché chi avanza dubbi su questa aggressività verbale è tacciato di buonismo, deriva dalla sfiducia, non senza motivi, nella classe che ha governato finora”.
E’ interessante il capovolgimento della parola “buonista”…
ANTONELLI: “Non è una parola che circola da poco. Si cita sempre un articolo di Galli Della Loggia del primo maggio 1995, ma la parola circola già dagli anni Novanta. L’ho trovata in un’intervista a Michele Serra, in cui gli si domandava: “Non è che questi lettori di “Cuore” sono troppo buonisti?”. E Serra rispondeva: “Lei non conosce i lettori di “Cuore”. E quindi cosa voleva dire “buonisti” a quell’epoca: ottimisti? Che vedevano un futuro troppo roseo? Nel tempo questa espressione è stata recuperata, ripotenziata e messa a sostituzione di altre definizioni negative che nel frattemp ohanno perso forza, come “comunista”, evidentemente oggi non più utilizzabile come spauracchio. La capacità che ha la politica di far cambiare significato alle parole è un’altra cosa che ci deve far riflettere e forse anche un po’ spaventare. Perché quando si dice: “la pacchia è finita”, a proposito di persone che vivono in condizione di sofferenza impensabile in una nave abbandonata in mezzo al mare, e si capovolge completamente un dato di realtà, si crea una nuova cornice attraverso la quale guardare la realtà. E la cornice determina la percezione della realtà. Piano piano, a furia di ripeterla, diventa una possibilità che essere su una barca, abbandonati, affamati ammalati, sia una “pacchia”. Chi vuole cambiare questa politica deve riflettere sull’uso della lingua. La critica al congiuntivo è controproducente. Bisogna creare un pensiero, e le parole per veicolarlo”.
Chi dovrebbe farlo?
ANTONELLI: “L’opposizione dovrebbe cominciare a riflettere su una visione propositiva della politica. La critica al congiuntivo invece è controproducente, non fa che confermare quell’atteggiamento additato come radical-chic. L’opposizione dovrebbe poi riflettere molto attentamente con una classe intellettuale che ha bisogno di essere sollecitata, e non intendo solo letterati e scrittori, ma economisti, architetti, sociologi, con i quali creare un pensiero nuovo, e le parole per veicolarlo”.
E’ appena uscito il suo libro, “Il museo della lingua italiana” (Mondadori). In “Volgare Eloquenza” (Laterza), metteva in guardia da una veterolingua che invece di mirare al progresso avrebbe voluto farci regredire, riportandoci agli istinti primari. Ora il ricalco espressivo, che innesca la corsa al ribasso, è compiuto.
ANTONELLI: “Quando scrivevo quelle forze erano all’opposizione, e anche grazie a quella maniera di utilizzare la lingua sono andati al governo. Parlavo di “emologismi”, parole che mirano alle emozioni. Gran parte di questi messaggi si servono di emoji: il bicipite flesso a mostrare forza, i calici di champagne, le faccine”.
Si può ancora urlare, come Nanni Moretti in “Palombella rossa”: “Chi parla male pensa male e vive male”.
SERIANNI: “Sì. I politici a cui si fa riferimento non parlano male in senso proprio, ma con una consapevolezza dichiarata. L’opposizione, senza entrare nella stessa palestra di aggressività, dovrebbe cercare una voce, oltre che una linea programmaticamente efficace. Una voce così flebile non è un buon segno”.
ANTONELLI: “Una parte degli italiani avrebbe voglia di parlare di politica e di ripensare al futuro dell’Ital,a in un’altra maniera. A questa parte del Paese, che non è affatto detto che sia minoritaria, ancora nessuno ha trovato il modo di rivolgersi in maniera seria, autorevole, credibile. Io sono ottimista: non credo che questo modo di parlare rispecchi la maggioranza degli italiani. Penso che la voce flebile dell’opposizione, a cui faceva riferimento Serianni, sia il vero problema: manca un interlocutore che abbia la capacità di aggregazione. E lo dimostrano questi movimenti di piazza che abbiamo visto muoversi a Roma e a Torino: al minimo richiamo, anche di forze non organizzate, una parte di popolazione è pronta a tornare in piazza per dire la propria. Penso che bisogni essere ottimisti su questo punto. Anche perché il rumore di fondo che vediamo nei social è parte di un’illusione ottica. I social non sono l’Italia, sono la parte di italiani che strilla di più, ma non è detto che sia la maggioranza. E su questo dobbiamo essere molto lucidi”.
E’ la lingua della maggior parte degli italiani, questa?
SERIANNI: “Sicuramente no, anche perché la lingua è stratificata su tanti livelli, e per fortuna è impossibile generalizzare. Per definizione le situazioni politiche sono mobili. Si può aspettare fiduciosi che la situazione evolva nella direzione di un maggiore rispetto, che è un valore tipicamente trasversale. Mentre possiamo attaccare la singola persona che non ci piace, gruppi e categorie dovrebbero essere oggetto di rispetto. Per favorire una migliore convivenza social. E anche perché non è detto che l’effetto di consenso duri per sempre: è probabile che di questo modo di parlare alla fine ci si stanchi”.
Fonte: L’Espresso. Autore: Sabina Minardi