Come Matteo Salvini ha usato l’estrema destra per costruire la nuova Lega e cosa significa per il futuro del suo partito
«Guardate l’Altare della Patria, posso farlo vedere senza essere accusato di nostalgie mussoliniane?». È un pomeriggio insolitamente caldo di metà ottobre e il segretario della Lega Matteo Salvini è sul tetto del ministero dell’Interno, dove in diretta su Facebook sta indicando con un braccio le torri bianche del monumento che svettano sul centro di Roma. È un errore comune associare al fascismo l’Altare della Patria, inaugurato nel 1911 quando Mussolini era ancora un giovane militante del partito socialista. Salvini si riscatta poco dopo, quando indica il quartiere Eur, costruito per ospitare l’EXPO del 1942, cita le paludi pontine, bonificate negli anni Trenta, e la città di Latina, fondata nel 1932 con il nome di Littoria. Con l’aria sorniona e modi da attore consumato Salvini si domanda se celebrare quelle icone dell’architettura di regime non gli procurerà l’ennesima accusa di simpatie verso il fascismo.
Da quando Salvini ha ottenuto la guida della Lega, alla fine del 2013, le sue allusioni e i suoi segnali verso gruppi estremisti e movimenti neofascisti si sono moltiplicate. Nell’anniversario della nascita di Benito Mussolini, lo scorso 29 luglio, Salvini ha scritto sui social network “Molti nemici molto onore”, un detto diffusamente attribuito al capo del fascismo. Nel corso dell’ultima estate si è presentato per due volte a eventi pubblici indossando vestiti prodotti da aziende notoriamente appartenenti a esponenti di gruppi violenti e neofascisti. La prima durante la finale di Coppa Italia tra Juventus e Milan allo Stadio Olimpico, quando ha indossato una giacca Pivert, una società di abbigliamento fondata da un ex dirigente di CasaPound che due mesi prima aveva guidato un’irruzione nel comune di Milano; la seconda quando a luglio si è fatto fotografare con una maglietta del marchio “Offence is the best defence” regalatagli pochi giorni prima da alcuni militanti dell’organizzazione neofascista Veneto Fronte Skinheads.
Dall’inizio della sua carriera politica Salvini utilizza le cosiddette “provocazioni” per restare al centro dell’attenzione. Nei primi anni Novanta, per esempio, si faceva riconoscere come il leghista che aveva una lunga barba e un brillante all’orecchio, e diceva di essere a favore della liberalizzazione delle droghe leggere. Nel 2009 arrivò a un passo dall’incidente diplomatico internazionale avvolgendosi in una bandiera tibetana durante una manifestazione contro i commercianti cinesi di Via Sarpi a Milano (l’orecchino se lo tolse durante la campagna elettorale per le regionali del 2015; del Tibet dopo quella manifestazione non risulta si sia più occupato).
Per molti, però, quelle di oggi sono più che semplici “provocazioni”, e temono che Salvini stia inviando inquietanti segnali all’estrema destra e ai gruppi neofascisti. Dog-whistling, dicono in inglese. «Non rischiamo una deriva fascista, siamo in una deriva fascista», ha detto recentemente la scrittrice Michela Murgia che a ottobre ha pubblicato Istruzioni per diventare fascisti, un libro in cui la descrizione dell’involuzione autoritaria di una democrazia sembra ispirata all’ascesa politica della Lega di Salvini. I timori di intellettuali come Murgia esistono anche all’estero. Lo scorso ottobre il commissario europeo Pierre Moscovici ha parlato del rischio di «risvegliarsi con il fascismo» in risposta alla “provocazione” di un europarlamentare leghista.
Anche se i timori sul ritorno del fascismo sembrano a moltissimi ingiustificati, e non sono condivisi nemmeno tra coloro che si oppongono a Salvini, tra gli esperti pochi dubitano che nel rapporto tra Lega ed estremismo di destra qualcosa sia cambiato nel corso degli ultimi anni. La Lega «ha assunto i tratti di una formazione di estrema destra, con tratti razzisti e xenofobi, politicamente e socialmente violenti», hanno scritto Gianluca Passarelli e Dario Tuorto nel loro recente saggio La Lega di Salvini, pubblicato dal Mulino. È un percorso che il partito ha intrapreso prima dell’arrivo di Salvini, ma che sotto la sua guida ha avuto una rapida accelerazione. Oggi la Lega ha il sostegno dichiarato di quasi tutti i principali gruppi estremisti della destra italiana, riceve l’aiuto concreto dei suoi militanti, il sostegno culturale dei suoi intellettuali e l’appoggio politico dei suoi dirigenti.
«Quello che è accaduto è che in Italia i partiti dell’estrema destra contano per un emerito fico secco e quindi a un certo punto la Lega è diventata de facto il loro punto di riferimento». L’eurodeputato della Lega Mario Borghezio è seduto nel suo ufficio al Parlamento di Strasburgo dove, come ogni anno in questo periodo, si prepara a organizzare il presepe che sarà esposto al pubblico: un simbolo, sostiene, delle radici cristiane dell’Europa. Iscritto alla Lega fin dalla sua fondazione, sottosegretario nel primo governo Berlusconi, due volte deputato e quattro eurodeputato, Borghezio conosce bene sia la Lega che l’estremismo di destra. Una conoscenza, quest’ultima, iniziata prestissimo.
Nel 1976, quando aveva 19 anni, Borghezio fu fermato dalla polizia con una lettera di minacce indirizzata al magistrato Luciano Violante firmata dall’organizzazione fascista clandestina Ordine Nuovo. A metà degli anni Ottanta frequentava un piccolo gruppo di neofascisti piemontesi riunito intorno alla rivista Orion, di cui divenne il direttore del supplemento economico, Orion-Finanza. All’epoca era un ammiratore dell’Islam e un sostenitore di teorie complottiste antisemite, oltre che un buon amico del fondatore della rivista, Maurizio Murelli, estremista di destra condannato a 18 anni di carcere per l’omicidio di un agente di polizia in piazza San Babila a Milano nel 1973. Fu proprio Murelli, nella metà degli anni Ottanta, a suggerirgli di entrare in quella che poi si sarebbe trasformata nella Lega di Umberto Bossi. Anche dopo il passaggio alla Lega, Borghezio non ha mai smesso di partecipare a convegni, fornire consigli e tessere legami internazionali con il volubile mondo dell’estrema destra italiana ed europea. «Non vi è organizzazione di estrema destra, legale, di cui io non abbia fatto parte direttamente o indirettamente», aveva raccontato in un’intervista alcuni anni fa.
Secondo Borghezio, quello che è cambiato negli ultimi anni è che i tradizionali rappresentanti dell’estremismo di destra, partiti come il Movimento Sociale Italiano, Alleanza Nazionale e i loro eredi, si sono estinti o sono diventati irrilevanti, lasciando milioni di elettori, militanti e intellettuali di destra senza rappresentanza politica. Salvini ha offerto loro un nuovo contenitore con il quale identificarsi. Secondo Borghezio è stato un fenomeno quasi naturale: «La Lega non ha mai cercato questi rapporti. Ovviamente salvo eccezioni».
Proprio Borghezio è stato il protagonista della più importante di queste “eccezioni”, culminata con l’alleanza della Lega con CasaPound, il più forte e organizzato movimento neofascista italiano, coinvolto in moltissimi episodi di violenza. I rapporti ufficiali tra i due movimenti cominciarono nel 2014, quando in occasione delle elezioni europee Borghezio venne inviato a candidarsi nella circoscrizione Centro Italia. Il luogo più naturale dove candidarlo sarebbe stato il Piemonte, la regione dove è nato e che frequenta politicamente da oltre trent’anni e dove avrebbe potuto farsi eleggere senza fatica. In Centro Italia invece la Lega non aveva tradizioni di insediamento, sezioni, militanti, né una rete che potesse sostenere una campagna elettorale. Ma gli elettori di centrodestra di quell’area, e in particolare quelli del Lazio, sono tra i più radicali del paese e Borghezio, con il suo passato di contatti e amicizie nell’estrema destra, era uno dei pochi leghisti con gli strumenti necessari a creare una “testa di ponte” in quella che per il partito di Salvini era una terra incognita. «Salvini volle fare un esperimento: “mandiamo un po’ questo qua in Lazio e vediamo cosa combina”».
Borghezio raggiunse rapidamente un accordo elettorale con CasaPound, i cui militanti iniziarono a fare campagna per lui e per la Lega, distribuendo volantini, attaccando manifesti, organizzando comizi e presidiando i gazebo. Al momento del voto Salvini raccolse in Centro Italia più di 30 mila preferenze e Borghezio quasi seimila. Era poco rispetto alle quasi 50 mila preferenze che aveva raccolto da solo cinque anni prima, quando era candidato nel suo Piemonte, ma in quei mesi Salvini non poteva permettersi di gettare via l’aiuto di nessuno. Nel 2014 la Lega si trovava in una situazione politica complicata. Era indebolita dagli scandali che avevano portato alle dimissione del fondatore Umberto Bossi, e isolata sul piano politico, con il suo principale alleato, Silvio Berlusconi, che aveva sottoscritto con il segretario del PD Matteo Renzi il cosiddetto “Patto del Nazareno” per portare avanti una riforma della Costituzione e della legge elettorale senza la partecipazione della Lega.
I dirigenti del partito erano divisi su come far fronte a questa situazione. Il presidente della Lombardia Roberto Maroni e il sindaco di Verona Flavio Tosi volevano portare la Lega a posizioni più moderate e centriste, con cui cercare di insidiare i voti di un Berlusconi già in fase calante. Salvini invece la vedeva in maniera opposta. Per lui la Lega poteva crescere soltanto occupando lo spazio che si era liberato a destra con la scomparsa di Alleanza Nazionale e con l’ulteriore spostamento al centro di Berlusconi. Salvini vinse la battaglia interna al partito e nel giro di qualche anno allontanò o marginalizzò sia Tosi che Maroni. Alle tradizionali richieste di maggiore autonomia per il Nord, che Maroni nel suo breve mandato da segretario aveva riportato in auge, sostituì la campagna per l’uscita dall’euro, mediaticamente molto più dirompente e con un richiamo nazionale. Su quasi ogni questione scelse di avere la posizione più a destra possibile, diventando così un punto di riferimento per moltissimi estremisti.
Fu un processo graduale che si manifestò per la prima volta nelle piazze e nelle manifestazioni. Nell’ottobre 2014, cinque mesi dopo le elezioni europee, Salvini invitò CasaPound e Forza Nuova a sfilare con le loro bandiere insieme ai militanti della Lega per le strade di Milano. Quel giorno sul palco salirono soltanto dirigenti della Lega, ma quando arrivò il suo turno Borghezio ringraziò esplicitamente gli «amici di Roma arrivati in più di mille». Ricordando l’arrivo di tante persone dalle regioni meridionali e del Centro, Borghezio concluse il suo intervento annunciando la nascita di «una Lega più grande, di una grande Lega», parole che sembravano preludere a un’espansione della Lega al Centro e al Sud di cui le forze della destra estrema e radicale sarebbero state l’avanguardia.
Nelle settimane successive Salvini formalizzò l’alleanza con “Sovranità”, il movimento creato da CasaPound in vista delle elezioni regionali del 2015. In Veneto e Puglia il vicepresidente di CasaPound Simone Di Stefano annunciò che Sovranità avrebbe sostenuto la Lega e i candidati di centrodestra. A febbraio Lega e CasaPound manifestarono insieme a Roma e questa volta Di Stefano venne fatto salire sul palco, dove si rivolse a una piazza in cui le bandiere leghiste sventolavano accanto alle croci celtiche. «Questa è la piazza più bella che abbia mai visto a Roma», disse tra gli applausi dei manifestanti. Poche settimane dopo fu Salvini a essere ospitato a un incontro organizzato da Sovranità al Teatro Brancaccio di Roma. I militanti di CasaPound lo accolsero intonando un coro: «Un capitano, c’è solo un capitano».
Le elezioni regionali andarono benissimo per la Lega, che passò dal 6,5 per cento delle europee al 16 per cento, raggiungendo risultati mai visti in precedenza in regioni storicamente di sinistra come Toscana, Liguria e Umbria. Per Sovranità, invece, le cose non andarono altrettanto bene. In Umbria, l’unica regione dove si era presentata con il suo simbolo, raccolse appena duemila voti. Le elezioni avevano dimostrato che il tradizionale centrodestra unito era ancora una forza politicamente competitiva e che non c’era molto da guadagnare da un’alleanza formale con CasaPound. A luglio, due mesi dopo le elezioni, Berlusconi ruppe l’alleanza con Renzi e tornò ad avvicinarsi alla Lega. A novembre Berlusconi, Salvini e la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si incontrarono a Bologna per la prima manifestazione del centrodestra di nuovo unito. Gli alleati chiesero di tenere fuori CasaPound, che avrebbe voluto partecipare con le sue bandiere, e Salvini li accontentò. Quando i giornalisti gli chiesero a che punto fossero i rapporti con il movimento neofascista, Salvini rispose che era da un anno che non li sentiva.
Anche Borghezio dice che, dopo aver conosciuto in profondità il vertice di CasaPound, ha preferito interrompere ogni rapporto: «Hanno capito la capacità di aggregazione di Salvini, hanno fatto di tutto per inserirsi, ma la Lega ha preferito non concretizzare questi rapporti». Il problema, spiega, è che i gruppi di estrema destra come Casapound «sono malati di ducismo, preferiscono essere capi di sei, che secondi di seimila». Ma nella Lega di Salvini i rapporti di forza sono chiari: quando CasaPound ha cercato di trattare da pari è stata scaricata senza tanti complimenti. Qualcosa di simile è accaduto ai militanti del gruppo Riva Destra, uno dei partiti nati dalle numerose scissioni di Alleanza Nazionale. Attivi soprattutto a Roma, i militanti di Riva Destra si erano avvicinati alla Lega nel 2015 ed erano entrati a far parte di Noi con Salvini, il movimento-contenitore con cui la Lega si è presentata al Centro e al Sud. Alla fine dello scorso anno, però, il movimento ha annunciato la rottura dei rapporti con la Lega, lamentando l’asfissiante controllo esercitato dai coordinatori scelti dalla dirigenza del partito.
Riva Destra è un raro caso di gruppo politico entrato in blocco all’interno di Noi con Salvini. Molto più spesso il partito ha reclutato singoli amministratori locali, dirigenti e militanti provenienti dall’area politica dell’ex destra radicale: MSI, Alleanza Nazionale, la Destra, mentre ancora oggi Fratelli d’Italia sta subendo defezioni verso la Lega. Anche su questo ceto politico, radicale più che estremista, servito alla Lega per mettere piede al Centro e al Sud, Salvini mantiene un forte controllo. Quando lo scorso aprile due parlamentari regionali appena eletti con Noi con Salvini sono stati arrestati in Sicilia per un’inchiesta di corruzione e favoritismi, Salvini ha commissariato il partito, inviando nell’isola come suo plenipotenziario il senatore di Varese Stefano Candini, storico dirigente cresciuto nella lega di Umberto Bossi che come suo primo atto ha azzerato la dirigenza locale del partito.
La Lega di Salvini sembra avere le relazioni migliori con le formazioni più estremiste, che per loro natura hanno poche ambizioni politiche tradizionali. Lealtà Azione, un movimento che ha origine nei gruppi di skinhead neonazisti milanesi e che oggi ha una rete di sedi e associazioni in tutta la Lombardia, ha fatto campagna per la Lega alle ultime elezioni per il comune di Milano e i suoi militanti sono stati essenziali nelle attività sul campo. Anche al Nord, infatti, la Lega è da anni in crisi di iscritti e la militanza è ai minimi storici (da tempo il partito non fornisce più cifre ufficiali né sugli uni né sugli altri). In cambio dell’aiuto ricevuto, la Lega ha candidato ed eletto consigliere del Municipio 8 Stefano Pavesi, un giovane militante dell’organizzazione.
A curare i rapporti con il gruppo è un altro dirigente storico, Max Bastoni, consigliere regionale della Lombardia e tra i principali organizzatori delle formazioni paramilitari che la Lega costituì alla fine degli anni Novanta: i Volontari Padani e le Camicie Verdi. Bastoni è un ospite fisso alle feste di Lealtà Azione e all’ultima, lo scorso settembre, è arrivato accompagnato da altri quattro tra parlamentari e consiglieri regionali del partito. Come dimostra il caso di Lealtà Azione, per un gruppo estremista o radicale collaborare con la Lega di Salvini significa ricevere legittimazione politica e visibilità mediatica. Ma nel rapporto che si instaura è sempre chiaro chi comanda. È la Lega a fare le scelte politiche e non i movimenti a pungolarla in una direzione o in un’altra.
La forza attrattiva della Lega di Salvini è così forte che spesso riesce a ottenere il consenso di questi gruppi anche senza bisogno di offrire una legittimazione plateale. Lo scorso 24 novembre il Comitato No194, un gruppo religioso ultraconservatore che sostiene un referendum per l’abolizione della legge sull’aborto, ha organizzato a Verona una manifestazione insieme al movimento neofascista Forza Nuova. Verona è da tempo un laboratorio dei rapporti tra Lega, estremismo di destra ed integralismo cattolico: è la città del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, iscritto al Comitato No194 dal 2011 e considerato il ministro più a destra dell’intero governo.
Fontana si trovava in città proprio nelle ore della manifestazione, e molti in piazza speravano nella sua presenza o almeno in un suo messaggio. Ma né il ministro né altri rappresentati della Lega si sono fatti vedere. La manifestazione è stata un fallimento, con appena un centinaio di partecipanti, in gran parte militanti di Forza Nuova e anziani parrocchiani arrivati con un pullman dalle province di Treviso, Udine e Belluno. L’assenza di leghisti, militanti o dirigenti, non ha turbato Pietro Guerini, presidente del Comitato. Sono anni che non parla con Fontana, ha raccontato, ma ritiene che condivida ancora i suoi stessi valori: «Un suo ritiro dall’associazione e da quello che rappresenta sarebbe impensabile». Ma è vero anche il contrario: i membri dell’associazione rimangono sostenitori della Lega anche se non si sono visti leghisti alla manifestazione, e anche se Fontana fino a questo momento ha realizzato poco o nulla delle loro richieste e anzi, le sue poche uscite sono state rintuzzate dallo stesso Salvini. «Credo che il 90 per cento dei nostri iscritti abbia votato per la Lega e io finirei travolto se criticassi Salvini», racconta Guerini camminando alla testa del piccolo corteo.
Come Guerini, tutti i leader dei gruppi estremisti che entrano in contatto con la Lega prima o poi si rendono conto delle difficoltà che comporta fare opposizione a Salvini. Se ne è accorta persino CasaPound, scaricata in maniera brutale tre anni fa. Lo scorso maggio, pochi giorni dopo che Salvini si era fatto vedere con la giacca Pivert, il suo vicepresidente Di Stefano dichiarò che CasaPound avrebbe sostenuto un governo Lega-Movimento 5 Stelle. Negli stessi giorni, la sezione di Udine di CasaPound dichiarava il suo appoggio al candidato della Lega al ballottaggio per le elezioni comunali. Il candidato della Lega vinse ed è possibile che a essere determinanti siano stati proprio i 300 voti di CasaPound. Lo scorso luglio hanno seguito la stessa strada i dirigenti di Riva Destra, ora vicini a Fratelli d’Italia, che dalla loro nuova sede a pochi passi dal ministero dell’Interno hanno fatto sapere di non avere nessuna critica da fare a Salvini e agli altri ministri leghisti.
Fare opposizione a Salvini è difficile per la destra radicale anche perché la Lega è l’unico partito a offrire rappresentanza politica alle loro identità. Lo fa sia in maniera goffa, con le magliette e gli ammiccamenti al fascismo del suo leader, ma anche in maniera più sottile, utilizzando un discorso politico e culturale che spesso è stato sintetizzato con il termine “sovranismo”, un insieme eterogeneo di nazionalismo protezionistico, tradizionalismo religioso e identitarismo locale. Anche nella costruzione di questa dottrina Salvini ha ricevuto l’aiuto di circoli di destra più o meno estrema.
Uno di questi è quello riunito intorno al sito Il Talebano. Il direttore e l’anima culturale del gruppo è Fabrizio Fratus, sociologo e storico militante dell’estrema destra lombarda, cresciuto nel MSI e poi passato attraverso i numerosi gruppi estremisti che si rifiutarono di confluire in Alleanza Nazionale. Il politico del gruppo è Vincenzo Sofo, 32 anni, un passato da responsabile giovanile della sezione milanese de La Destra e oggi militante della Lega e consulente di Regione Lombardia. «Ci consideriamo un’avanguardia culturale che ha costruito un ponte tra la Lega e la destra tradizionale», racconta oggi al Post. Il loro obiettivo, spiega, è trovare una sintesi culturale, un terreno ideologico comune che possa unire l’arco politico più ampio possibile. È stato il gruppo del Talebano che a partire dal 2012 ha fatto incontrare Salvini con una serie di personaggi molto vicini alla destra: lo scrittore Massimo Fini, il giornalista Pietrangelo Buttafuoco e il filosofo francese Alan De Benoist, considerato il padre della moderna destra identitaria.
Quel che ne è uscito, però, più che un’ideologia coerente è una sorta di minimo comune denominatore necessario a mettere d’accordo una vasta area politica altrimenti molto eterogenea, che come tale rischia inevitabilmente di cadere in contraddizione. Nel marzo 2016 alcuni gruppi dell’organizzazione giovanile della Lega, i Giovani Padani, tra cui alcuni frequentatori del Talebano, iniziarono a criticare la nuova linea del partito accusando Salvini di aver trascurato il tema dell’autonomismo settentrionale. È un punto molto caro a Sofo e agli altri membri del Talebano, la cui ideologia prevede la preminenza delle identità locali sul nazionalismo novecentesco. La polemica però venne subito stroncata e il capo della comunicazione di Salvini, Luca Morisi, attaccò chi pensava che la Lega fosse ancora «un cespuglietto solo nordista». Il giorno dopo Fratus pubblicò un lungo post sul sito per giustificare le ragioni di Morisi.
In altre parole è Salvini a scegliere temi, slogan e parole d’ordine tra quelle che gli forniscono gli intellettuali a lui vicini, non il contrario. Come i militanti di CasaPound, anche gli animatori del Talebano hanno dovuto accettare la superiorità delle esigenze politiche sulle loro sensibilità ideologiche. Sofo dice di non risentire di questo controllo che Salvini esercita sul partito, né si sente soffocato da un leader le cui scelte sono spesso più pragmatiche che ideologiche. «L’errore che non bisogna commettere è pensare che il compito di Salvini sia ricostruire il partito della destra», dice. «Salvini deve costruire una forza “conservatrice”, se mi passi il termine, che offra la maggiore rappresentanza possibile alla metà destra del paese».
Ma se Salvini è stato il primo a formalizzare i rapporti della Lega con i gruppi estremisti, non è stato certo lui a introdurre la retorica che quei gruppi condividono. Il Talebano e altri circoli gli hanno fornito parole d’ordine e riferimenti intellettuali con un respiro internazionale, ma i temi su cui quelle parole d’ordine insistono erano tutti già presenti nella linea del partito ben prima dell’arrivo di Salvini alla segreteria. Secondo storici e scienziati politici, la Lega si era già trasformata in un’autentica forza della destra radicale oltre 20 anni fa. Fu un mutamento all’epoca trascurato dall’opinione pubblica, poiché coincise con l’alleanza tattica con la sinistra che il leader Umberto Bossi impose al partito, non senza suscitare contrasti e malumori. Dopo aver fatto cadere il governo Berlusconi nel 1994, Bossi aveva dato il suo sostegno al governo Dini insieme al PDS di Massimo D’Alema e si era alleato con il centrosinistra alle regionali del 1995. Erano gli anni in cui D’Alema sosteneva che la Lega fosse una «costola della sinistra» e in cui Bossi diceva che Berlusconi e il leader di AN Gianfranco Fini fossero «fascisti» che andavano «ributtati in mare». Dalle sue aperture alla sinistra Bossi ottenne una serie di riforme favorevoli all’autonomia, tra cui la riforma del Titolo V della Costituzione. Nel frattempo, però, stava spostando il partito su posizioni sempre più radicali.
Secondo uno studio di due ricercatori italiani, Carlo Ruzza e Stefano Fella, pubblicato nel 2011, tra 1994 e 2001 la Lega incrementò di quattro volte il numero di dichiarazioni protezionistiche, nazionaliste e a favore del welfare per i soli italiani. Nei discorsi dei leader cominciarono a comparire teorie del complotto e un’ossessiva ostilità verso l’Europa. «Hitler ha sterminato gli ebrei, i comunisti massoni vogliono sterminare tutti i popoli dell’Europa con l’immigrazione», disse Bossi nell’agosto del 2000 in una dichiarazione di solidarietà a Georg Heider, il capo dell’estrema destra austriaca con simpatie neonaziste. Bossi schierò il partito su posizioni apertamente islamofobe, omofobe, a difesa della famiglia tradizionale e dei valori cristiani. Il linguaggio adottato in quegli anni, come raccontano i tre autori di Svastica Verde, una raccolta delle dichiarazioni più violente dei leader leghisti pubblicata nel 2011, raggiunse un livello mai più toccato nemmeno oggi. Nel 2001, quando la Lega tornò allearsi con il resto del centrodestra, il partito occupava saldamente la posizione più a destra della coalizione. Al congresso del 2002, culminato in un discorso in cui Bossi attaccò duramente il multiculturalismo, nei banchetti del partito si potevano acquistare souvenir nostalgici di ogni tipo, dalle croci celtiche ai libri del filosofo De Benoist.
Anche il tentativo di Salvini di uscire dalla sua riserva elettorale del Nord Italia è unico soltanto perché finora sembra coronato da un parziale successo. Bossi tentò innumerevoli volte di creare varie forme di “leghe del sud”, ottenendo però sempre scarsi risultati. È difficile dire oggi come sarebbe andata la storia se nel 2004, al culmine della trasformazione della Lega in un partito di destra radicale, Bossi non avesse avuto l’ictus che da lì in poi ne avrebbe limitato fortemente le capacità politiche.
Ciò che realmente distingue Salvini nel suo rapporto con l’estrema destra non è quindi l’aver provato a costruire un terreno comune, ma l’esserci riuscito. Parte del merito è dell’abilità di Salvini, ma molte ragioni sono esterne alla sua leadership. La crisi economica e quella migratoria hanno portato al centro del dibattito politico i temi su cui è più forte. Come hanno scritto Passarelli e Tuorto nel loro libro, la Lega di Salvini ha goduto dell’allargamento del bacino di voti dell’estrema destra avvenuto a livello continentale, ma ha sfruttato anche la peculiare situazione italiana, dove la scomparsa della destra radicale tradizionale ha aperto alla Lega il ricco serbatoio di quadri dirigenti, militanti e intellettuali appartenenti alla galassia dell’estrema destra e rimasti senza punti di riferimento politici.
Guardando in controluce i suoi rapporti con questi movimenti, però, si possono vedere anche le debolezze della Lega di Salvini. La crisi di iscritti e militanti che obbliga il partito ad affidare la propaganda elettorale a gruppi più dinamici e radicali. La crisi dell’autonomismo settentrionale, che ha costretto il partito a cercare un nuovo e raffazzonato cemento dottrinario che lo tenesse insieme. La mancanza di radicamento al Centro e al Sud che ha costretto il partito a mettersi nelle mani di gruppi dirigenti esterni e non sempre affidabili.
Resta ancora da vedere se questi siano espedienti tattici per sopperire a mancanze temporanee o i segni di un cambiamento ideologico più profondo. «Una cosa è la Lega, una cosa è Salvini», dice Borghezio con il suo tono affabile così in contrasto con la sua immagine pubblica di violento comiziante. La Lega rimane ancora un partito radicato soprattutto nelle aree produttive e rurali del Nord Italia, con una classe dirigente composta in gran parte da persone pragmatiche che con l’estrema destra hanno poco a che spartire. Sabato 8 dicembre, quando il leader della Lega è tornato a Piazza del Popolo da ministro dell’Interno, tra le oltre 50 mila persone presenti non si vedevano più né croci celtiche né le teste rasate di qualche gruppo estremista. Il discorso di Salvini ministro è stato moderato e conciliante, quello di un leader conservatore di centrodestra, non di un incendiario estremista.
Ma il suo successo e il suo controllo apparentemente incontrastato sul partito significano che il segretario potrà decidere molto del futuro della Lega. «Il “capitano” piace e molti nuovi elettori del partito sono prima di tutto “salviniani” – continua Borghezio – Cosa produrrà questo salvinismo diffuso però resta ancora da vedere». Borghezio spera che la Lega di Salvini rafforzi le sue nuove radici ideologiche che, secondo lui, sono necessarie per costruire un consenso duraturo. Dice di voler fare formazione ai giovani del partito, facendoli incontrare con le “intelligenze esterne” che negli ultimi anni hanno contribuito a costruire la nuova identità della Lega. Si accalora quando dice che ai suoi occhi oggi «ci sono chance enormi per i nostri temi». E quando dice “nostri” non si riesce a capire se stia parlando della Lega o del suo primo amore politico: l’estrema destra.
Fonte. Il Post. Autore: Davide Maria De Luca