Sembrava dovessero durare lo spazio di pochi mesi, poi fino alla manovra, poi fino alle europee. Eppure resistono. La realtà è ciò che unisce forze tanto diverse come Lega e CinqueStelle traggono forza dagli attacchi altrui. E finché ci sono nemici esterni da combattere la resa dei conti è rinviata.
Più sono attaccati e più resistono. Più subiscono il cartellino giallo da parte dei giornaloni e più reagiscono. Più l’Europa di Moscovici e Juncker li rimbrotta e più crescono nei sondaggi. Ecco la stagione del governo del «cambiamento» targato DiMaio-Salvini, dell’esecutivo nato come unica combinazione possibile per uscire dall’impasse all’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo scorso.
Una «fusione a freddo», qualcuno l’ha ribattezzata, fra il M5S del No Tap, No Tav, No Terzo Valico, e il partito più vecchio della Repubblica, ovvero la Lega di Salvini che invece dice Si a ogni opera pubblica si chiami Tap, Tav, Terzo Valico, ponte di Messina etc etc… Due storie distanti anni luce. La prima nata sul filone dell’antipolitica dilagante e dalla crisi dei partiti che hanno retto la seconda Repubblica, Forza Italia e partito Democratico. La seconda, quella della Lega, rappresentata dal tessuto produttivo del nord che veleggia che cresce ai ritmi di Germania e Francia.
Fatta questa premessa che serve a comprendere il contesto nel quale si muovono i due dioscuri Salvini e Di Maio occorre passare in rassegna i primi sei mesi dell’esecutivo più bislacco della storia della Repubblica. Non a caso ancor oggi nelle ore della pax siglata fra l’Europa e palazzo Chigi la domanda che impazza nei corridoi dei palazzi e nei salotti buoni del ceto medio riflessione è la seguente: «Fin quando potranno governare i gialloverdi?». C’è chi continua a sostenere che un minuto dopo l’approvazione della legge di bilancio Salvini e Di Maio, più il primo che il secondo, si stringeranno la mano e si diranno arrivederci e grazie. Chi invece asserisce che la stretta di mano con tanto di addio sarà rimandata al secondo successivo al responso delle elezioni europee più politiche della storia delle europee. Due scenari altamente quotati dai bookmakers di palazzo Montecitorio e di palazzo Madama. D’altro canto, è la tesi di chi frequenta il Transatlantico, «dopo la finanziaria o al massimo dopo le europee non avrà più alcun senso l’esistenza di questo governo. Saranno tutti incazzati che palazzo Chigi imploderà».
Eppure dopo giorno dopo giorno la sindrome dell’accerchiamento rafforza il duo Di Maio Salvini. Non a caso quest’ultimo continua a ripetere come un mantra, lo ha fatto anche lunedì ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica su Rete4, che «l’esecutivo durerà cinque anni. Con Di Maio? Andiamo d’amore e d’accordo». Accerchiati ma rafforzati. Come se ogni stilettata che arriva da qualsiasi latitudine sia quasi una boccata d’ossigeno per questi barbari che imperversano nei palazzi del potere. Fino ieri c’è stato il braccio di ferro con i tecnocrati europei conclusosi con un pareggio. Nessuna procedura di infrazione in cambio del ritocco del Deficit e di una serie di restrizione alla spesa italiana che dovrebbero tranquillizzare la Ue.
E se l’esecutivo duella con Moscovici e Juncker, lo stesso fa e farà con i tecnici dei ministeri e con tutti quei burocrati figli dei governi di centrosinistra. Fatto sta che un minuto dopo l’accordo fra Conte e Dombroskis il capo di gabinetto del Ministero dell’Economia l’eterno Roberto Garofali ha deciso di rassegnare le dimissioni. «Dopo lunghi anni alla guida del Gabinetto del Ministero e dopo averne assicurato continuità di funzionamento fino alla sostanziale approvazione della legge di bilancio, formalizzo la volontà – cui ti ho fatto cenno da qualche mese – di lasciare l’incarico per riassumere le mie funzioni di provenienza».
Negli ultimi mesi il capo di Gabinetto aveva subito pesanti attacchi, soprattutto da parte del M5S, culminati con la pubblicazione di un audio del portavoce di palazzo Chigi, Rocco Casalino, che accusava i vertici del ministero di «remare» contro e prometteva loro l’allontanamento. I pentastellati si sentivano accerchiati dalle manine del Mef che stravolgevano il decreto dignità o, stando alla versione di Di Maio, frenavano la politica espansiva dell’esecutivo. In altri tempi sarebbe stata un terremoto politico che avrebbe destabilizzato qualsiasi esecutivo. Oggi invece sa più di boccata d’ossigeno. Per non parlare del passo indietro di Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto nazionale di Sanità, ancor prima della scadenza naturale. Il suo rapporto con la ministra Grillo non è mai stato idilliaco. Basti pensare ad alcuni scontri poco dopo l’insediamento del governo gialloverde. E se a ciò si aggiungono le altre uscite eccellenti come quella del presidente dell’Agenzia del Farmaco Stefano Vella che ha polemizzato con il governo per le politiche migratorie o il mancato rinnovo del direttore dell’Agenzia del Farmaco Mario Melazzini il dado è presto tratto. L’esecutivo reagisce ogniqualvolta si trova in difficoltà. Più è accerchiato e più resiste. E vien da pensare che in fondo l’esecutivo potrebbe addirittura cinque anni.
Fonte: Linkiesta. Autore: Alberto Quaranta