Forse quel che bisogna fare adesso che il parlamento britannico ha preso la più importante decisione dalla seconda guerra mondiale, è essere pragmatici, come si dice siano i britannici almeno secondo la classica definizione. Qualità che in effetti è mancata ai maestri della specialità, e non solo nel giorno più lungo in cui si decideva l’addio all’Unione europea. Addio da tempo in forse perché l’accordo per l’uscita firmato il 25 novembre scorso a Bruxelles dai leader dei 27 Paesi Ue e dalla primo ministro britannica Theresa May, è stato contestato ancora prima di essere messo per iscritto.
Il voto su Brexit alla Camera dei Comuni martedì 15 gennaio è nato sotto i peggiori auspici. Il partito conservatore cioè della stessa premier è da tempo spaccato fra fedeli alla May e drappelli di Brexiteer fuoriosi o semplicemente contrari che hanno subito visto nel trattato di quasi 600 pagine – e ancor prima nelle sue linee guida – una resa incondizionata alla Ue. I dieci unionisti nordirlandesi su cui poggia la maggioranza al governo sono stati i più feroci critici del punto più dolente dell’accordo, il backstop fra le due Irlande che di fatto lascerebbe parte del Regno Unito – l’Irlanda del Nord – nell’Unione europea. Una condizione temporanea «né una minaccia né una trappola» – hanno assicurato in una lettera di tre pagine il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk e il presidente della Commissione Ue, Juncker – che tuttavia ha rappresentato la grande frattura di questo accordo che né le minacce né le promesse né le paure agitate nelle ultime ore dalla signora May sono riuscite a ricomporre.
Il miracolo mancato
L’esito meno probabile alla vigilia era un sì della maggioranza all’accordo, quindi l’addio alla Ue il 29 marzo prossimo come stabilito per legge. Theresa May trionfa ed entra nella storia come la donna che dopo 46 anni porta fuori il Regno Unito dal blocco europeo. Altro che «I want my money back» della Thatcher 1984. Esito a cui però, nelle ultime ore, ha fatto finta di credere solo lei. La maggior parte degli osservatori considerava l’eventualità un miracolo. Che non si è compiuto.
Il «no deal» una catastrofe per tutti, ma ora?
Il parlamento ha bocciato l’accordo, ma già prima tutti erano concordi sul fatto che arrivare alla fine di marzo con un «no deal» sarebbe stata una catastrofe per l’economia del Regno e l’intero Paese. Per questo motivo mercoledì scorso il parlamento approvava una mozione con cui costringeva la May a presentare un piano B entro tre giorni in caso di bocciatura il 15 gennaio. Il disegno alla base di questa mozione era semplice: rimandare la signora May a Bruxelles a contrattare condizioni più accettabili agli occhi della maggioranza a Westminster puntando sul fatto che la Ue ha paura quanto Londra di una uscita senza rete. Finora simili azzardi non hanno pagato.
230 voti di scarto: quanto è dura la sconfittadi May
Alla vigilia del voto si era detto che molto sarebbe dipeso da come la signora May avrebbe perso: una sconfitta di misura o una batosta. La premier ha perso con più di 200 voti di scarto, va così definitivamente in fumo l’accordo con la Ue, forse anche il suo governo e la sua carriera come capo dei Tory e premier.
Poche ore prima del voto, alcuni commentatori politici giuravano di aver sentito la primo ministro dire che qualunque fosse stata l’entità della sconfitta, lei sarebbe comunque andata avanti perché il suo accordo «è l’unica opzione». Il che è plausibile vista la tenacia quasi ottusa con cui Theresa May ha affrontato i suoi due ultimi anni al potere ma una batosta è una batosta e questo dovrà pur valere, persino per lei.
1) Brexit rinviata
Come sarebbe possibile? Grazie ad una estensione dell’articolo 50 del Trattato che ha innescato la procedura di ritiro del Regno Unito dalla Ue. Semplicemente, il governo britannico – sia che May presenti le dimissioni sia che rimanga – avrebbe qualche mese in più per mettere a punto un testo che può essere approvato dal parlamento. Il rinvio sarebbe comunque limitato a pochi mesi, massimo fino a fine giugno perché il 2 luglio si insedia il nuovo Europarlamento e a quel punto i lunghi negoziati, il dettagliato testo, le dichiarazioni politiche, tutto diverrebbe carta straccia. La Gran Bretagna sarebbe costretta allo status quo quindi verosimilmente a rimanere nella Ue. Non a caso la May si è portata avanti e nelle ore prima del voto, ha agitato in patria lo spettro di rimanere legata alla perfida Bruxelles.
2) Perché la soluzione Norway plus è per ora da escludere
Prima di passare in rassegna altri scenari è bene precisare che una ipotesi che gira altrove è attualmente priva di fondamento, ovvero l’accordo non passa e si pensa ad una uscita sul modello Norway plus. Il modello norvegese sarebbe una Brexit ancora più morbida che per molti deputati e buona parte di britannici tradirebbe lo spirito stesso del referendum del 2016. La disfatta di May nasce in buona misura perché i suoi colleghi di partito volevano più Brexit e non meno, non questa versione a loro giudizio annacquata che umilia l’ex Impero.
Il modello Norway plus implica che il Regno Unito, come la Norvegia, non è membro Ue ma fa parte della European economic area, quindi resta nel mercato comune con ovvi obblighi anche per la circolazione delle persone. Certo tutto può accadere ma finora non sono state queste le condizioni politiche. Tutt’altro. Un ministro ha però confidato alla Bbc: «più la fanno lunga, più soft sarà la Brexit». Bisognerà vedere se si può arrivare alla morbidezza norvegese.
3) Un secondo referendum? Su cosa?
Da un anno si parla di un secondo referendum su Brexit che è la grande speranza degli europeisti britannici ed è decisamente esclusa da Theresa May e dal leader dell’opposizione Jeremy Corbyn. Simon Kuper, giornalista scrittore del Financial Times, ha messo in evidenza il fattore demografico nient’affatto secondario: i Remainer hanno chance di vincere un secondo voto se muoiono tanti Brexiteer quanti ne servono prima di nuove urne. Perché nel 2016 sono stati gli anziani a votare rabbiosi contro la Ue e i giovani a scegliere di rimanere: i secondi hanno solo il fattore tempo dalla loro parte, ma il tempo è comunque poco.
Altri anziani non eletti stanno invece pensando a una soluzione di mezzo: tornare alle urne per votare non di nuovo su Brexit ma sul risultato dei negoziati. Questa è la soluzione che gira alla Camera dei Lord – la camera alta del parlamento britannico che pur con i limitati poteri ha cercato in tutti i modi di rendere più innocuo possibile il ritiro dalla Ue. Questa soluzione supererebbe la grande obiezione dei Brexiteer e di Theresa May cioè che rimettere in discussione il referendum 2016 sarebbe un tradimento della democrazia, sovversivo addirittura.
4) Un governo laburista?Per cosa?
In Gran Bretagna si parla più dei tormenti dei Tory che delle spaccature nel Labour. Forse perché l’opposizione guidata da Jeremy Corbyn è compatta, anche se solo formalmente: i labouristi europeisti hanno perso il congresso annuale, è passata la linea del leader e della vecchia guardia cioè nel caso in cui l’accordo su Brexit non passi, Corbyn chiederebbe un voto di sfiducia per May e nuove elezioni politiche.
Jeremy il Rosso si vede già al posto della leader conservatrice ma cosa farebbe di diverso? Ha già detto che non chiederebbe un nuovo voto su Brexit perché dopo mille ambiguità ha infine ammesso di essere a favore del ritiro dalla Ue. Si tratterebbe così solo un passaggio di potere che non attenuerebbe anzi aumenterebbe la confusione di queste ore. Nonostante tutto, la Brexit ha un percorso definito, anche un eventuale leader laburista ne dovrebbe tenere conto. È però improbabile che Corbyn vinca un voto di sfiducia contro May e si arrivi a nuove elezioni politiche. Come se non bastasse, prima del voto alcuni deputati laburisti avevano candidamente ammesso pur nell’anonimato che avrebbero votato a favore del deal perché «stiamo per entrare nell’era della politica compra e vendi», si parla di transactional politics di cui Donald Trump è massima espressione. Ma questa è un’altra storia nella Storia.
Fonte: Il Sole 24 Ore. Autore: Angela Manganaro