La democrazia diretta è viva (anche se non lotta insieme a noi)

La democrazia diretta è viva (anche se non lotta insieme a noi)

Dalle aspettative tradite di Rousseau e Podemos fino ai casi interessanti (e riusciti) di Brasile ed Estonia, a che punto siamo nel mondo con la svolta digitale della partecipazione politica?

“La democrazia, semplicemente, non funziona”, affermava parecchio tempo fa Kent Brockman (sì, il giornalista tv dei Simpson). E come dargli torto? Negli ultimi anni abbiamo assistito a un folle circolo vizioso elettorale: l’ascesa dei movimenti populisti – ottenuta anche denunciando lo scarso stato di salute delle democrazie occidentali (accusate di essere in mano alle élite) – ha portato alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti e di Jair Bolsonaro in Brasile; peggiorando ulteriormente le condizioni delle democrazie rappresentative.

Nel complesso, il giudizio nei confronti delle istituzioni democratiche è ai minimi storici ovunque: solo il 19% degli italiani ha fiducia nel parlamento(comunque un passo in avanti rispetto al 2017), mentre i partiti non vanno oltre l’8%. Per inquadrare meglio la situazione, basti dire che le banche conquistano una percentuale superiore, arrivando al 21%. Lo scenario non cambia nelle altre grandi democrazie occidentali: in Spagna solo il 16% dei cittadini ha fiducia nel parlamento, percentuale che arriva al 33% in Francia e al 36% nel Regno Unito; mentre negli Stati Uniti non si va oltre il 25%.

In poche parole, gli organi fondamentali della democrazia rappresentativa sono sfiduciati da una larghissima parte di cittadini, spalancando le porte a populismi ed estremismi. Come se ne esce? La parola magica, giunta inizialmente dal Nord Europa e poi adottata soprattutto dai partiti più giovani (a volte riconducibili al populismo), è soprattutto una: democrazia diretta.

Invece di chiamare i cittadini alle urne per eleggere dei rappresentanti, la democrazia diretta prevede che siano direttamente i cittadini a legiferare, esprimendosi sui temi all’ordine del giorno. Non è una novità, ovviamente: questa forma democratica richiama subito alla mente l’Atene dell’Antica Grecia, in cui tutti i cittadini (esclusi donne e schiavi, che non ne avevano diritto) si riunivano in assemblee deliberative che consentivano loro di votare su ogni materia in discussione.

Oggi, però, tutto questo è impossibile. Le città sono molto più popolose dell’antica Atene, per non parlare delle nazioni. Come si riuniscono in assemblea i 46 milioni di italiani che hanno diritto di voto? Questo ostacolo si può aggirare grazie alla tecnologia. Anzi, è proprio per merito della tecnologia che il termine “democrazia diretta” è potuto tornare di moda: alcune piattaforme digitali ambiscono infatti a diventare le nuove agorà, in cui riunire tutti i cittadini attivi dando loro uno strumento per confrontarsi e votare.

Per il momento, però, gli esperimenti di democrazia diretta tendono a essere soprattutto interni ai partiti. Gli esempi più noti sono probabilmente Rousseau del Movimento 5 stelle e Participa del partito spagnolo Podemos; entrambi comunque ispirati ai valori promossi per primi dai Partiti pirata nordeuropei (ci torniamo più avanti).

“Trasformare il partito in una piattaforma permette di costruire un modello diverso di partito, più aperto e in grado di rispondere alle domande che provengono alla società”, ha spiegato l’ex coordinatore di Podemos Miguel Arduany. Parole che rievocano quanto detto in Italia dall’attuale presidente della Camera Roberto Fico, secondo cui “stiamo superando il modello degli intermediari, questa è l’epoca della disintermediazione. La democrazia digitale incarna questa tendenza applicandolo alla politica, permettendo alle persone di avere voce in capitolo in importanti decisioni senza dipendere dai loro rappresentanti”.

Ma questa è la versione ideale, perché – nella pratica – le cose funzionano in maniera molto diversa. Come dimostrato in più occasioni proprio nell’utilizzo di Rousseau, il voto degli iscritti non ha tanto l’obiettivo di stimolare una discussione e un voto aperto, quanto di ratificare una decisione già presa ai piani alti (ammantandola di una parvenza di volontà popolare). È quanto sembra di fatto avvenuto, per fare solo due esempi, nel voto sul processo a Salvini o in quello sull’alleanza con la Lega (che ottenne il 90% di voti positivi).

“Tra gli oltre 40 referendum interni tenuti dal Movimento 5 stelle, ci sono stati solo due casi in cui gli iscritti sono andati contro le direttive del partito”, ha scritto Paolo Gerbaudo sul Guardian. “Nella dozzina di referendum online tenuti da Podemos fin dal 2014, non c’è stato un singolo caso di voto di ribellione”. Più che uno strumento di discussione, insomma, queste piattaforme rischiano di diventare una macchina per la propaganda, in cui dietro una parvenza di democrazia diretta si cela una realtà vicina alla manipolazione dell’opinione pubblica.

Dal riassunto della vicenda su cui si è chiamati a votare fino alla formulazione del quesito, la volontà dei vertici del Movimento 5 stelle emerge sempre chiaramente, influenzando inevitabilmente l’opinione degli iscritti e trasformando il voto in una caricatura. Invece di essere protagonisti attivi del dibattito interno al partito, gli attivisti in questo modo vengono trattati come gli Npc (non-player characters) dei videogiochi, che – come si legge sempre sul Guardian“reagiscono solo agli stimoli esterni ma non hanno nessuna opportunità di intervenire in maniera proattiva”.

Inevitabile, quando le piattaforme usate dai partiti sono progettate e gestite da dipendenti del partito stesso; senza nemmeno un ente terzo che vigili e garantisca la regolarità del voto (assente in Rousseau, ma presente in Participa di Podemos). Sarebbe come se a scrutinare le urne durante un referendum fossero solo gli esponenti di una parte: chi mai si potrebbe fidare della regolarità del processo elettorale? Probabilmente sono anche questi limiti ad avere, fino a oggi, impedito che le piattaforme digitali progettate per la consultazione politica espandessero il loro ruolo al di là degli affari interni dei partiti.

Alcune sperimentazioni più ambiziose, comunque, stanno iniziando a farsi largo. Uno degli esempi più interessanti viene dal Brasile, in cui la Costituzione del 1988 prevede che il governo debba esprimersi su ogni proposta di legge di iniziativa popolare che sia stata firmata almeno dall’1% della popolazione.

Missione quasi impossibile in uno stato con oltre 200 milioni di abitantisparsi su un territorio vastissimo. Da tempo, però, il governo brasiliano sta sperimentando l’utilizzo della piattaforma Ethereum (basata su blockchain) per raccogliere le firme digitali e trasmettere in maniera più semplice ed efficace le proposte di legge in parlamento: “Sarebbe la vittoria della democrazia”, ha spiegato Everton Fraga, ex consigliere del governo in materia. “Con questo progetto, potremmo realizzare quanto da sempre è previsto dalla nostra costituzione”. In Estonia – una società digitale in cui già nel 2005 è stato introdotto il voto online – una piattaforma come Rahvaalgatus viene invece utilizzata per discutere e votare su proposte di legge che, una volta raggiunte le mille firme, vengono sottoposte al Parlamento.

Questi due esempi, però, riguardano strumenti digitali che semplificano la partecipazione dei cittadini al processo legislativo tradizionale. Ma è possibile spingersi ancora più in là, fino alla creazione di una democrazia che possa, in futuro, venire interamente gestita attraverso delle piattaforme digitali. Da questo punto di vista, l’esempio più noto è LiquidFeedback, usata dai già citati Partiti Pirata nordeuropei e che sposta però il focus dalla democrazia diretta strettamente intesa alla forma ibrida di democrazia liquida.

Il concetto è semplice: invece di chiedere a ogni singolo cittadino di votare sempre su ogni singolo tema (come previsto nella democrazia diretta), le piattaforme per la democrazia liquida offrono anche la possibilità di delegare il voto, nei casi in cui non ci si senta sufficientemente competenti su una materia e si preferisca affidarsi a qualcuno di più esperto. A differenza di un tipico rappresentante eletto in parlamento, però, questa persona può essere cambiata ogni volta che si deve votare. Quindi: se vi sentite preparati sull’argomento votate voi stessi; altrimenti, potete affidare il vostro voto a un delegato selezionato tra tutti gli iscritti.

Teorizzata nei primissimi anni Duemila dallo scienziato informatico Bryan Ford (oggi docente al Politecnico di Losanna), la democrazia liquida mantiene in vita gli aspetti essenziali di quella diretta evitando però di disincentivare la partecipazione quando i temi si fanno troppo complessi. Una via di mezzo tra la democrazia diretta e quella rappresentativa, insomma, sfruttata anche da piattaforme in via di sviluppo come Sovereign(creata dalla ong Democracy Earth) e il partito australiano Flux, i cui rappresentanti eletti in parlamento si impegnano a rispettare sempre le decisioni prese sulla piattaforma (per il momento, nessuno dei loro candidati è però stato eletto).

Sfruttando a pieno regime le potenzialità di questi strumenti digitali, sarebbe effettivamente possibile aumentare la partecipazione diretta dei cittadini; magari limitandola ad alcuni temi etici o particolarmente sensibili (come può essere il caso dell’eutanasia o dello ius soli).

Nonostante alcuni voli di fantasia, in cui si immagina una piattaforma digitale in grado di sostituire integralmente il parlamento e la democrazia rappresentativa, l’aspetto più interessante di sistemi come LiquidFeedback è la possibilità di integrare nelle democrazie rappresentative una maggiore dose di partecipazione, facilitando la discussione e il voto.

Considerando come, almeno in Italia, gli ideali di democrazia diretta si siano spesso trasformati in un semplice processo di ratifica di quanto già deciso dai partiti, sarebbe sicuramente un bel passo avanti.

Fonte: Wired. Autore: Andrea Daniele Signorelli

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