Le lingue non sono mai state così fondamentali per i politici europei, e da Macron alle nuove linee guida sull’inglese del M5s, parlare un’altra lingua diventa una questione politica.
Due giorni fa Emmanuel Macron ha diffuso sul sito ufficiale dell’Eliseo una lettera rivolta a tutti i cittadini europei. Nella lettera, pubblicata interamente dal Corriere della Sera, Macron cerca di scaldare i cuori europei e farli riunire davanti a un fuoco comune fatto di quei valori condivisi che hanno fondato il concetto stesso di Unione europea, di cui Francia e Italia sono tra i soci fondatori. Lettera che in Italia arriva dopo la discussa intervista del presidente francese rilasciata a Che tempo che fa la scorsa settimana e andata in onda domenica.
Ora, al di là del contenuto della lettera e di quello che si possa pensare di Macron, la cosa da sottolineare qui è che un leader europeo si rivolga ai cittadini europei direttamente, senza intermediari, grazie a un testo tradotto in 22 lingue. È qualcosa di nuovo che finora era abituato a vedere solo chi lavora nelle istituzioni europee, dove tutti i documenti ufficiali sono tradotti in tutte le lingue dell’Unione grazie al lavoro di 700 traduttori che macinano 100mila pagine al mese.
Non solo: la lettera è stata pubblicata anche su Facebook con dei post nelle diverse lingue comunitarie. Questo vuol dire che ogni cittadino europeo vede solo il post nella sua lingua – cosa che permette anche ai commentatori di non mischiarsi con altre nazionalità – e che quel post circola sulle bacheche di ogni stato, registrandone il sentiment a seconda della latitudine. Non un dato da poco.
La lingua crea un legame con l’interlocutore
La potenza di un messaggio che non ha bisogno di un giornalista corrispondente per essere tradotto, che arriva diretto sugli schermi di milioni di cittadini, è un fattore importante. Quando si tratta di politica estera infatti, nella maggior parte dei casi il giornalista è utile per superare la barriera linguistica e per filtrare le notizie che possono avere un rilievo anche in casa nostra (dico soltanto “utile” perché ormai i plugin come Google Translate sono migliorati a tal punto che le traduzioni si avvicinano sempre più all’originale).
Utilizzare la lingua di un altro paese concede un vantaggio competitivo enorme, proprio perché elimina un filtro, forse il più grande. Macron nell’intervista a Fazio ad esempio ne toglie un altro, quello culturale. Mostrando di aver visitato tante volte l’Italia, di amare Napoli, di aver studiato e recitato De Filippo, crea un altro legame col suo interlocutore, a prescindere da quello che sta dicendo. E infatti sul post su facebook si possono leggere molti commenti entusiasti: qualcosa che poteva sembrare inconcepibile fino a poco tempo fa.
C’è qualcuno che ha riscosso un successo ancor maggiore di Macron con questo metodo, ed è Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga ed europarlamentare presidente del gruppo dei liberali di Alde, cui in Italia aderisce Più Europa. Un mese fa Verhofstadt si era lanciato in una pesante arringa contro il presidente Conte in visita al Parlamento europeo a Strasburgo (arringa che aveva sollevato non poche polemiche). La particolarità? Era nella nostra lingua.
Anche qui la forza del messaggio, fortemente critico verso le politiche del governo gialloverde, è stata potenziata dal fatto che fosse fatto in italiano. Verhofstadt giustifica il fatto di voler parlare in italiano perché ama l’Italia, attribuendo a questo gesto un segno di rispetto verso il paese e la sua cultura, cosa che si contrappone alla sua preoccupazione sul suo destino politico. Ancora una volta un legame col proprio interlocutore, che non è Conte (benché lì presente si trovi davanti a lui) ma sono i cittadini italiani.
Il video, pubblicato su Facebook, nella sua prima versione con i sottotitoli in inglese è stato condiviso 28700 volte generando 31 mila reazioni, 9700 commenti e 1,7 milioni di visualizzazioni. Forti dei risultati il giorno seguente è stato pubblicato con i sottotitoli in italiano, e condiviso quasi 14mila volte generando 18mila reazioni, 6700 commenti e più di un milione di visualizzazioni; si tratta del video più visto nell’ultimo anno sul suo canale Facebook, che ovviamente è stato ripreso dai giornali che lo ricaricano sui propri canali generando ulteriori visualizzazioni.
Una nuova competizione politica
Che succede dunque se i politici di altri paesi si permettono di parlare ai cittadini italiani, senza filtri, direttamente? Succede che anche se l’opposizione è un po’ sonnolenta, il governo di turno rischia di vedersi attaccato dall’esterno in modo inaspettato; succede che l’opposizione che non viene fatta in casa viene fatta da Bruxelles; che quelle parole che molti europeisti aspettano, non dette dall’opposizione, trovano una voce autorevole in Parigi, che batte tutti sul tempo; succede, insomma, che i politici italiani di ogni schieramento ancora una volta fanno la figura di quelli rimasti a guardarsi l’ombelico.
Come una azienda che va alla conquista di nuovi mercati, anche i partiti politici potrebbero varcare i confini: e allora, perché no, potrebbe nascere un En Marche italiano, o Più Europa (che è in Alde) potrebbe prendere più voti anche per effetto dei discorsi di Verhofstadt.
Un problema bipartisan
La conoscenza delle lingue non è soltanto un vantaggio competitivo quando si parla di politica estera: è una condizione imprescindibile. L’ha capito anche il Movimento 5 stelle, che ha appena annunciato che chiederà ai candidati alle prossime europee almeno il livello B2 di inglese, che quantomeno evita di fare brutte figure. In assenza di interpreti nelle situazioni ufficiali, è necessario poter comunicare senza intermediazioni con colleghi e lobbisti. Problema che non avranno i giovani di Volt, che vengono dalla generazione Erasmus e che dialogano già con i propri pari in tutto il continente.
Ma l’inglese non deve essere prerogativa dei soli europarlamentari. Ogni mese i nostri ministri dovrebbero andare a Bruxelles a parlare con i propri pari per decidere le prossime politiche comuni, e non sempre c’è un interprete ad affiancarli, soprattutto nei vis a vis.
Volendo fare una veloce panoramica della conoscenza delle lingue dei politici nostrani, se Virginia Raggi è quella che forse ha fatto maggior sfoggio della sua conoscenza dell’inglese in Messico a un summit sul clima l’anno scorso, in generale la nuova classe di leader non si è distinta in questo campo. Con l’eccezione di Paolo Gentiloni nello scorso governo, come non dimenticare l’inglese maccheronico di Matteo Renzi o più recentemente il premier Conte a Davos (dalla cui figura è nato anche un remix alla Zanzara su Radio 24).
Non è andata meglio alla Lega, dopo che recentemente Giorgetti è stato criticato per il suo inglese negli Stati Uniti in un meeting al Council on Foreign Relations, importante think tank newyorkese, proprio in un momento in cui l’Italia cerca di stringere una relazione con gli Stati Uniti.
Con uno sguardo al passato, è però Francesco Rutelli a essere entrato di diritto nella storia dell’inglese inadeguato. Speriamo che questo trend diversamente anglofono non riguardi la prossima classe politica, si tratti di parlamento nazionale o europeo. Please, learn foreign languages.