Politici e comunicatori. Una lezione che a sinistra non si riesce a capire

Politici e comunicatori. Una lezione che a sinistra non si riesce a capire

C’è un dato che unisce le forze progressiste di, quasi, tutto il mondo occidentale, partendo dai democratici americani sino ad arrivare al nostro meraviglioso Paese. La questione è sotto gli occhi di tutti, coinvolge quella gigantesca nebulosa, spesso con valori antitetici, che raggruppa le varie sinistre internazionali. In estrema sintesi, potremmo riassumerla in questi termini: la rappresentazione dei valori che incarnano il pensiero democratico, e che dovrebbe arrivare agli strati sociali più sensibili a certi argomenti, il vecchio proletariato, è affidata esclusivamente al mondo della comunicazione.

Dove per comunicazione si intende quella sterminata serie di mezzi con cui l’uomo contemporaneo veicola un contenuto che vuole proporre, che sia informativo, commerciale, di natura artistica, e chi più ne ha più ne metta. Per fare l’elenco dei mestieri assorti a difensori del pensiero socialdemocratico non basterebbe tutto un giornale. Dai cantanti agli attori, dai pubblicitari ai fotografi, passando per registi e un esercito di scrittori, non meno i giornalisti, presentatori e soubrette. Oramai, tanti di questi comunicatori fanno a tempo pieno i ‘politici’.

Qualcuno potrà obiettare: sai che novità! È indiscutibile il fatto che un certo mondo, e della comunicazione e della cultura tout court, sia sempre stato organico alla sinistra, anzi, in anni peggiori di questi si è assistito a vicende oggi impensabili, ma quella era l’epoca del credo ideologico, che giustificava tutto e tutti. L’originalità di questi anni rispetto ai passati sta altrove, e si può riassumere in questi termini: il Partito comunista italiano di quarant’anni fa aveva sì tanti cantori a disposizione, ma c’era anche ben altro, incarnato nella mente e nel cuore dei lavoratori grazie a un’azione politica concreta.

Come dire: Roberto Benigni rispondeva a Enrico Berlinguer. Il cantore, il giullare, quindi, era ‘al servizio’ di chi, con il lavoro, nelle fabbriche, nei quartieri, si prendeva la responsabilità di rappresentare e difendere materialmente i diritti del popolo.

Oggi, invece, abbiamo solo un esercito sterminato di cantori, al servizio di una parola svuotata di carne, una specie di campagna pubblicitaria dove il prodotto da vendere non esiste. Il prodotto mancante, in questo caso, è la politica reale, per mano di uomini che più degli altri, per storia personale o qualità universalmente riconosciute, decidono di mettersi al servizio dei più deboli per migliorarne le condizioni umane e sociali.

Anche perché i tempi sono cambiati: l’uomo della strada, ma ormai è più aderente alla realtà dire l’uomo dello schermo, si è fatto consumatore raffinato, smaliziato, bombardato com’è da messaggi pubblicitari coglie al volo lo slogan privo di sostanza, e altrettanto bene sa ripagare. Non solo, a questo si aggiunga un effetto paradosso: nell’immaginario popolare ai cantori-comunicatori, nelle varie declinazioni citate prima, è richiesto di svolgere al meglio il proprio mestiere: devono saper raccontare, affabulare, intrattenere, ma non possono ergersi a paladini, perché, semplicemente, non lo sono, perché il loro lavoro è un altro.

Quando lo fanno corrono il rischio dei rischi, ovvero l’ipocrisia: la simulazione di un sentimento che non esiste. Il prodotto che vendono, in sostanza, non possono essere loro stessi, anche perché appartengono socialmente a gruppi umani diversi dal popolo, quelle che oggi definiamo élite, quindi il rischio concreto è che non sappiano nemmeno di cosa stanno parlando. Ecco il paradosso: tutti questi urlanti difensori del pensiero progressista rischiano di essere loro stessi, in primis, motivo di rifiuto da parte di chi dovrebbe affidarsi allo schieramento che con tante belle parole dicono di difendere.

Torniamo all’esempio fatto poc’anzi: Benigni rispondeva a Berlinguer. Per spiegare al meglio la relazione basti tornare con la mente a uno scatto che è entrato nella memoria storica del nostro Paese: Roma, 1983, campagna elettorale per le politiche del 26 giugno. Benigni invitò Berlinguer sul palco, nello sconcerto generale, per dimostrargli tutta la sua vicinanza, lo sollevò di peso e se lo mise in braccio per pochi secondi. Una sintesi impareggiabile. In quell’istantanea convivono affabulazione e promessa, messaggio e contenuto.

Oggi, invece, sulle migliaia di fonti informative a disposizione assistiamo a un canovaccio che è quasi sempre lo stesso, con i comunicatori nei panni dei politici, spesso aggressivi, per non dire inferociti, nella loro parte di difensori della parola progressista. Il risultato finale, la somma di questa confusione di ruoli e missioni, è sotto gli occhi di tutti ed è quello che esce dal segreto dell’urna.

Un risultato avvilente, che cambierà solo il giorno in cui l’universo della comunicazione (a quello che accade a sinistra, corrisponde a destra un ‘canto della politica’ che si fa sistematica e spesso mistificante aggressione dei diversamente pensanti e scriventi) tornerà alla sua funzione originale, quella di medium, al servizio di un contenuto, in questo caso la politica reale. Il giorno in cui ognuno tornerà ai propri mestieri, con il giornalista che fa il giornalista, il cantante il cantante, il politico, finalmente, il politico.

Fonte: Avvenire | Autore: Daniele Mencarelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *