Il mio debito verso la cultura e il mondo anglosassone è praticamente inestinguibile, ma questo non deve ottenebrarmi nel giudizio davanti alla nefasta scelta della Brexit.
Certo, non riesco a immaginare me stesso, la mia identità più profonda senza la musica dei Beatles o il pop glitterato della mia adolescenza, l’immensa eleganza poetica di Shakespeare, lo stile witty di Jane Austen, Oscar Wilde o Alan Bennett, il verde scuro dei paesaggi e tenue dei campi di Wimbledon, la pietra dei muretti dei suoi borghi, le guglie delle cattedrali gotiche, la pompa barocca delle cerimonie, la cortesia formale e la magnifica storia del Medioevo inglese, con la Magna Carta e tutto il resto… Ma amare non significa rinunciare a capire.
La Brexit è stata il trionfo della credula superstizione campagnola sulla conoscenza dei fatti. Della demagogia sulla razionalità. Dell’infinita possibilità manipolativa della democrazia diretta opposta alla concretezza di quella rappresentativa. Dell’illusione sul realismo. E l’abbandono del “comune buon senso”, tra tutte le virtù forse la più inglese.
Viaggiando nel Regno ho però sentito ragionamenti che mi hanno fatto riflettere, essenzialmente chiacchierando con i tassisti, che in ogni angolo del pianeta rappresentano una delle antenne fondamentali per capire la direzione del vento. Nel 2018 – mentre stavo recandomi in visita a Downton Abbey (akaHighclere Castle) – il tassista mi ha detto:
“uscire è stato un errore, rimanere sarebbe stato un errore, dovevamo solo scegliere quale errore compiere. Abbiamo scelto di sbagliare da soli”.
Da un punto di vista storico la cosa non sorprende: gli inglesi hanno sempre difeso tenacemente la loro indipendenza e il loro modo di fare le cose, non hanno mai amato le alleanze troppo stringenti e la patria del common law non poteva che vivere con disagio il soffocante cavillismo normativo tipico di ogni atto dell’Unione, il Mostro Gotico che pretendeva di mettere fuori legge la tradizionale pinta di birra solo per il gusto di uniformare i bicchieri dal Circolo Polare Artico fino a Malta, dal Guadalquivir al Njemen.
La seconda frase mi è stata detta nel 2019 da un tassista di Liverpool, mentre mi accompagnava al John Lennon Airport per ritornare nell’isolamento continentale:
“Non avevo votato per il referendum sulla Brexit perché non sapevo cosa votare, ma adesso sono favorevole a uscire perché se si è presa una decisione la si porta avanti, non si può pretendere di votare e rivotare fino a quando il risultato non è quello voluto dagli intellettuali!”
Insomma, il rispetto per l’essenza e le procedure democratiche. Il semplice, inoppugnabile “ma perché ci avete fatto votare se dopo volete fare altro?” lanciato in faccia a quanti – come me – hanno ciarlato di un secondo referendum, perché il primo non era venuto bene… Il senso della democrazia di un popolo che si sente sempre un po’ superiore verso nazioni – come l’Italia, la Germania, la Spagna, il Portogallo, la Grecia – che nel corso del XX secolo non si sono certo distinte per la difesa dei valori di Habeas Corpus. Un popolo che non dimentica che non sarebbe più esistita l’Europa senza il discorso delle lacrime e del sangue di Churchill, senza la consapevolezza che forse la II Guerra Mondiale l’hanno vinta americani e sovietici, ma gli inglesi sono quelli che non l’hanno persa, quando erano da soli, unico faro di libertà in un continente immerso nelle tenebre.
A noi che restiamo competono due cose: la prima è chiederci quando e perché il sogno europeo sia andato in pezzi… E non tiriamo in ballo la Grande Crisi del 2008 o la presunta invasione di migranti del 2016: il referendum che respingeva la c.d. “Costituzione Europea” è fallito in Francia e nei Paesi Bassi (due dei sei fondatori) nel 2005, dunque ben prima di questi eventi. Il voto “antieuropeo” degli Inglesi, pertanto, non è stato né il primo, né il solo.
L’Unione non ha saputo infondere una visione, un po’ di spirito vitale a un progetto che sembra sempre più stracco e privo di direzione e che paga molti errori colossali, il principale dei quali – a mio avviso – il repentino allargamento a Est, verso Paesi privi di qualsiasi tradizione democratica e coscienza europeista, che nell’Unione hanno essenzialmente visto un grande bancomat al quale attingere senza nulla dare. E soprattutto aver dimenticato la grande lezione del Basileus Giovanni Zimisce, che giunto alle mura di Gerusalemme decise di non procedere oltre e tornare indietro affermando che “talvolta crescere significa diminuire“. L’Unione è cresciuta e crescendo è diminuita. Diminuita di consapevolezza, compattezza, coerenza, prospettive.
La crisi dell’Europeismo si collega inoltre con la crisi qualitativa e morale delle classi dirigenti e della loro incapacità di far sopravvivere e prosperare il sogno europeo. Essere “europeisti” significa apertura mentale, conoscenza delle lingue, curiosità per culture e storie diverse. Significa aver viaggiato e sentirsi cittadini del Mondo. Insomma essere parte di una élite di certo culturale, probabilmente anche economica. E’ anche per questo che l’Europeismo non è mai stato un “movimento dal basso” ma un processo verticistico, veicolato dalle classi dirigenti dei partiti quando ancora erano fatte da persone serie, da gente che mandava in Parlamento Europeo Altiero Spinelli o Maurice Duverger, evitando i giochini di marketing politico del “5 circoscrizioni, 5 donne capolista! non importa chi, purché siano carine!”
L’Europeismo non è mai stato un sentimento istintivamente diffuso tra le masse: è esistito e prosperato perché considerato necessario dai vertiti della società e sperare in un risveglio dei popoli – come nei progetti un po’ naif di partiti inesistenti quali Diem25 o Volt – sarebbe illusorio. E oggi ci vorrebbe il coraggio di mettere al centro la riforma delle Istituzioni comunitarie, con in prospettiva un’accelerazione nel processo di integrazione in chiave sociale e democratica per un numero ristretto di Paesi e l’adozione di una vera legge elettorale europea, requisito non negoziabile per la creazione di un effettivo spazio partitico ed elettorale europeo.
La seconda cosa da fare è augurare al Regno Unito ogni bene. Io lo faccio di sicuro… Saranno sempre bizzarri e per conto loro (non è un caso ora lo scontro si sta spostando attorno al possesso di una remota colonia conquistata al tempo della Regina Anna, con il Trattato di Utrecht), ma saranno sempre parte integrante di alcuni dei momenti migliori della storia della Civiltà Europea. E nel fare questo ricordare a noi stessi perché siamo europeisti.
L’Europa non è la troika, i brindisi di Junker, il grigiore dei corridoi di Bruxelles, l’ossessione ragionieristica o la bava alla bocca di qualche populista mediterraneo o centroeuropeo… L’Europa è – con tutti i suoi limiti e difetti – l’unica superpotenza che cerca di tenere assieme politiche sociali, politiche ambientali, democrazia, uguaglianza e tolleranza. Lo fa male, in modo contraddittorio e pasticciato.
Ma i populismi alla Trump o le dittature putiniane o cinesi la odiano proprio per questo: per essere un modello migliore, molto migliore.
In quanto al Regno, non sarà certo un visto da richiedere online a fermarmi ogni volta che avrò voglia di sentirmi “a casa”… E l’addio mi auguro sia dolce, privo di tensioni o rancore… Parafrasando Elvis verrebbe da dire
Leave me tender, leave me sweet, never let me go
Autore: Marco Cucchini (C) Poli@rchia