Alla fine, c’è voluto un po’, ma gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente: Joe Biden, assieme a Richard Nixon l’unico vicepresidente eletto presidente dopo l’intermezzo di un’altra presidenza. Il sistema ha tenuto: alla Casa Bianca va il candidato che ha preso più voti (quasi 5 milioni di margine) e anche più delegati nel “mitologico” Collegio Elettorale, tanto bistrattato eppure così profondamente radicato nel modello istituzionale statunitense. Tutto bene, tranne una cosa: lo sconfitto non accetta il risultato e minaccia di barricarsi nello Studio Ovale scatenando una offensiva legale mai vista prima. Dovremmo meravigliarci? Direi di no, questo è il Populismo, che nelle elezioni non vede uno dei tasselli del più ampio e complesso gioco democratico, ma l’Alfa e l’Omega della lotta politica, non un mezzo ma un fine.
Andando alla sua essenza profonda, l’ideologia populista si basa su due presupposti: solo la volontà della maggioranza conta (principio maggioritario spinto alle estreme conseguenze) e – poiché la volontà della maggioranza è cangiante – ci vuole un capo che la interpreti.
Il primo presupposto si porta dietro il fastidio e i pregiudizi verso ogni forma di separazione e limitazione del Potere – lette come ostacolo al libero manifestarsi della volontà popolare – mentre il secondo vede nelle elezioni non un’opportunità di inclusione, di rappresentanza pluralista della complessità, ma il momento catartico in cui Popolo e Capo si ri-uniscono. E’ il corrispondente contemporaneo dell’alzata sugli scudi tipica della tradizione barbarica, una sorta di “dittatura elettiva” che la pruderie linguistica talvolta definisce come “democrazia decidente”, concetto cesaristico che tanti danni ha fatto anche dentro il centrosinistra, spettro politico che per definizione dovrebbe avere un approccio istituzionale meno muscolare.
Affinché il populista modello funzioni, bisogna che il “Capo” e la volontà popolare si muovano in sincrono. E non ci possono essere più capi o diverse volontà: il Capo è uno solo, la Volontà pure. Non è un concetto nuovo, la simbiosi tra popolo e Capo, tra Terra e Re è una cosa vecchia come il Mondo. Guardando Romulus, la nuova fiction di Sky dedicata alle origini di Roma, in una delle prime scene ci viene mostrato il brutale l’accecamento del re di Alba Longa e la sua condanna all’esilio non perché avesse fatto qualcosa di male o ci fosse stato un colpo di stato, ma perché la siccità stava imperversando crudele e quindi si era rotto il rapporto simbiotico tra potere politico, popolo e terra. Pertanto, si caccia il re e se ne chiama un altro.
Per un leader populista – che esiste e prospera non perché ha un messaggio politico a cui crede, ma perché sa “cavalcare” la volontà popolare – è inconcepibile essere in minoranza. Perché in minoranza, a questo punto, sarebbe il popolo stesso. Ma se il popolo è in minoranza, che ne è della democrazia? E’ stata rubata. E quindi le urla, l’evocazione del complotto, lo spettro del deep state, i ricorsi e le carte bollate rappresentano uno sbocco inevitabile. Questo perché un leader parlamentare può perdere oggi, aspettare pazientemente che la situazione cambi e vincere domani. Ma un leader populista no: è condannato a vivere e governare stando a cavallo, come i Khan Mongoli del XIII secolo. E se si dimostra – anche solo una volta – che lui e il popolo non sono sullo stesso livello, non sono più in sintonia, il leader populista è finito.
Per questo il contenzioso, le carte bollate e gli stuoli di avvocati sono un corollario inevitabile, così come il rifiuto di un laico sistema di check & balances assolutamente ovvio. Pertanto, quando esiste il populismo, ogni crisi politica rischia di diventare una crisi democratica, una crisi di sistema. E più pericoloso di un leader populista trionfante c’è solo un leader populista sconfitto, nel momento stesso della transizione del suo potere…
Marco Cucchini | Poli@archia (C)