27/04/2013 – Stefano Ceccanti, docente di diritto costituzionale e già brillante senatore (non ricandidato) del PD, nel suo blog oggi spiega le possibili conseguenze per i parlamentari democratici che non dovessero dare la fiducia al governo Letta.
“È vero che anche negli ordinamenti dello Stato democratico basato sul suffragio universale e sul ruolo dei partiti è rimasta come garanzia ereditata dallo Stato liberale a suffragio ristretto il divieto di mandato imperativo, che non ti fa decadere dalla carica di parlamentare. Ed è altresì vero che, in coerenza con quella garanzia, c’è nei Parlamenti una piccola area di decisioni a scrutinio segreto, che dà una protezione particolare al singolo, in genere identificata con le votazioni su persone e con alcune decisioni particolari su cui è in gioco la coscienza personale. Si tratta però di eccezioni limitate alla regola.
I parlamenti degli Stati democratici a suffragio universale, fondati quindi sulla sovranità popolare e sul ruolo dei partiti quali strumenti per determinare la politica nazionale, hanno come regola necessaria il voto palese. Ciò è ancor più vero per le forme di governo parlamentari che non si strutturano affatto sulla separazione tra legislativo ed esecutivo, ma sulla fusione tra maggioranza parlamentare e Governo a cui si oppongono varie minoranze. Dove le istituzioni sono separate, come negli Usa, questa loro caratteristica impone, per evitare paralisi di sistema, una qualche fluidità dei negoziati tra presidenza e singoli parlamentari, andando anche oltre la disciplina di partito. Dove invece ci si basa sulla fusione tra maggioranza e Governo, il momento-chiave in cui si debbono riconoscere con chiarezza i soggetti collettivi, è la fiducia al Governo. Non a caso a metà dell’800 Bagehot definiva quella elettiva la prima funzione del Parlamento. Per questa ragione il voto di fiducia si esprime nelle forme parlamentari nel modo più solenne possibile, collocando la scelta personale dentro una chiara cornice collettiva: non solo voto palese, ma espressione solenne ad alta voce passando sotto il banco della Presidenza. Niente alzata di mano e niente voto elettronico.
Ovviamente nei gruppi politici e parlamentari ci possono legittimamente essere posizioni diverse, di singoli o di correnti interne. Tensioni tanto più fisiologiche quanto più i partiti sono grandi e plurali e quanto più ci si trova di fronte a scenari imprevisti e a maggioranze inedite. Per fare solo un esempio, il voto favorevole del Pci al Governo Andreotti nella tragica mattina in cui Moro fu rapito, era tutt’altro che certo a causa della composizione del Governo, ritenuta deludente. Tuttavia non era in discussione il fatto che il Pci, come qualsiasi altro partito, decidesse come soggetto collettivo. In una forma parlamentare non si sfugge ad un’alternativa secca: o, dopo aver richiesto una votazione democratica interna, la minoranza si adegua ritenendo la decisione sbagliata ma tollerabile, oppure quest’ultima, se la legge come un vero e proprio snaturamento, provoca una scissione, prevenendo l’inevitabile espulsione.
Più esattamente, se la minoranza non si adeguasse su una votazione-chiave, e non prendesse autonomamente la decisione di uscire, l’espulsione sarebbe in realtà non una vera e propria esclusione, ma una semplice presa d’atto di un’incompatibilità politica già sopravvenuta. In genere, infatti, non c’è alcun bisogno di espellere, è la minoranza incoercibile che fa autonomamente la scissione, specie quando è un gruppo organizzato: che si tratti del Psiup contro la scelta socialista del primo centrosinistra o dei Comunisti Italiani da Rifondazione per far partire il Governo D’Alema. Se invece si tratta di singoli l’espulsione può in taluni casi prevenire l’uscita, come accaduto già a metà anni ’50 con Mario Melloni e Ugo Bartesaghi, inevitabilmente espulsi dalla Dc per il dissenso su una votazione assimilabile al voto di fiducia, come lo sono quelle di indirizzo sulla politica estera e di difesa, in quel caso si trattava dell’Ueo, la nuova organizzazione europea di difesa. Il divieto di mandato imperativo ti consente di restare comunque in Parlamento, ma non ti dà il diritto di restare nel tuo gruppo parlamentare se non ti adegui alla maggioranza, cercando di sostenere tesi obiettivamente indifendibili come quella secondo cui il voto di fiducia sarebbe un voto di coscienza.
Ovviamente spetta però alla politica prevenire i dissensi rispondendo con convinzione alle obiezioni. La disciplina è tanto più forte quanto più solide sono le decisioni prese. In questo caso, quello di una sorta di grande coalizione dovuta a un esito non decisivo delle elezioni causato da norme costituzionali ed elettorali inadeguate, la soluzione sarà credibile nella misura in cui sarà chiaro come e quando superare quelle regole. Solo così sarà chiaro che la mescolanza tra forze di norma alternative non sarà costretta a ripetersi nel tempo. Quelle riforme saranno il vero test del Governo che ha il dovere di condurci a elezioni decisive.”
Stefano Ceccanti | Huffington Post