La crisi strutturale del tennis italiano rappresenta la fotografia di un paese immaturo, irresponsabile e incapace di valorizzare il merito e l’assunzione personale di responsabilità.
Caspita, che tirata! si potrebbe pensare. E invece è proprio così… La crisi del tennis e la crisi della società italiana vanno a braccetto, perchè le ragioni sono – a mio avviso – le medesime: pigrizia, assenza di senso etico, vittimismo, demeritocrazia.
Fino agli anni ’70 infatti il tennis italiano era vitale e non mancavano mai giocatori di vertice che – senza essere fenomeni assoluti – tenevano alto il nome del nostro Paese in questo sport. Poi, con la fine degli anni ’70, è iniziato il declino.
Nessun giocatore italiano è riuscito a entrare più tra i primi 15 del mondo, nessuno si è distinto per particolari risultati, nessuno ha dimostrato continuità nell’impegno. Perché è questo che si richiede al bravo tennista: costanza, continuità, serietà, stile di vita regolato, autonomia e senso di responsabilità individuale… come Chris Evert, che è arrivata almeno in semifinale in 52 dei 56 tornei del grand slam giocati. O come Jimmy Connors, per 16 anni ininterrottamente tra i primi 10 giocatori del mondo. O come Roger Federer, che da oltre 5 anni non perde in un torneo dello slam prima della semifinale.
Da noi invece prevale – come approccio e come italian way of life – l’improvvisazione, la ricerca di un improbabile “assolo” che giunga senza fatica e senza costi, l’incostanza, la frignata perché “la superficie è bagnata, la terra troppo lenta, il cemento troppo veloce, la bua al gomito, la bua al ginocchio, la bua al culo e quella alla testa (spesso indistinguibili)”.
E la ricerca di scorciatoie per scansare le fatiche. Come si è visto in questo mese di “preparazione” agli US Open. I nostri “eroi”, invece di galoppare nei torridi tornei sul cemento americano in vista del torneone di Flushing Meadows attualmente in svolgimento hanno fatto altro: Bolelli è andato in viaggio di nozze, Seppi ha giocato sulla terra di San Marino (!) in cerca di denaro facile e un pugno di punti ATP persi la settimana dopo, altri hanno calcato gli improbabili torneucci campagnoli di Cordenons (!!!) o di Trani, peraltro senza neppure riuscire a vincerli. Risultato: a 48 ore dall’inizio del torneo newyorkese nessun tennista italiano era ancora in gara, tutti spazzati via come castelli di carte in un giorno di vento. Tutti ad accampare scuse per “il sorteggio sfortunato, il polso che fa male, il caldo, l’umido, il fuso orario…”
E fosse solo il tennis! Il disastro epico nei Mondiali di Atletica Leggera di Berlino ha sottolineato ancora – se mai fosse stato necessario – il concetto: siamo incapaci di emergere negli sport individuali, ci difendiamo solo in quelli di squadra.
Questo perché non crediamo nelle risorse del “singolo”, nelle possibilità dell’individuo di cambiare il proprio destino, ma ci affidiamo sempre alla rete di protezione del gruppo, della corporazione o della casta, che annacqua in un contesto plurimo le responsabilità individuali.
Da questo disastro si salvano solo le donne. Come Flavia Pennetta, riuscita a entrare nella topten del tennis femminile (nessuna italiana ci era mai riuscita e nessun italiano era comparso nella alte vette dopo il 7° posto di Corrado Barazzutti, nel 1977). E infatti Flavia non vive in Italia ma in Spagna, gira il mondo senza paura di confrontarsi con le grandi e al primo turno degli US Open ha vinto per 60-60. Ci salvano le donne anche da altre parti, come nel nuoto visti i risultati splendidi – quelli si storici – di Federica Pellegrini, bella, brava, seria e simpatica.
E quindi, continuando nelle analogie, non posso che rivolgere a me stesso (e ai lettori) una domanda: saranno le donne a dover salvare la società italiana, così come salvano la nostra dignità sportiva? E noi maschietti italiani, mammoni, bamboccioni, pigroni e frignoni, siamo davvero irrecuperabili?