13/03/2013 – A un secolo dalle prime rivendicazioni femministe, solo uno stato oggi non prevede il voto alle donne: Città del Vaticano. Ma il voto significa poco come dimostrano le violenze in India e Pakistan.
(Foto: Corbis Images)
“Siamo qui non per distruggere le leggi, ma perché il nostro desiderio è di fare le leggi” scriveva a inizio Novecento Emmeline Pankhurst, la pioniera del movimento femminile inglese per il suffragio universale (nella foto un gruppo di attiviste in costume storico da suffragette).
Oggi, dopo più di 100 anni dall’arresto della Pankhurst, con il nuovo governo Renzi per il 50% femminile la questione sulla parità di genere rimane un dibattito ancora molto vivo e sembra che finalmente le donne siano sempre più nella posizione di farle le leggi, almeno sulla carta, e non solo in Parlamento. Secondo ilmonitoraggio appena pubblicato e condotto dal Dipartimento delle Pari Opportunità a un anno dall’approvazione del decreto sulle quote di genere, circa i due terzi dei consigli di amministrazione e più della metà dei collegi sindacali delle società controllate dalle Pubbliche Amministrazioni si sono adeguati al decreto che prevede l’obbligo per le società pubbliche di garantire al genere meno rappresentato almeno un terzo dei componenti di ciascun organo sociale. Secondo dati 2013 infatti, nei consigli di amministrazione delle 25 maggiori società controllate direttamente dal Ministero dell’Economia e della Finanza, erano presenti solo 13 donne su un totale di 99 membri.
Ampliando l’orizzonte, come riportato nel Report on women and men in leadership positions and Gender equality strategy mid-term review redatto dalla Commissione Europea sulla presenza femminile nelle società private quotate in borsa, il 16% dei membri dei consigli di amministrazione nei paesi dell’Unione Europea è donna. E in Italia la percentuale scende al 12,9%.
Da questi numeri si evince dunque che sebbene sia passato un secolo dalle prime lotte per i diritti della donna, anche nei paesi cosiddetti “sviluppati” si è ancora lontani dall’utopia delle signore Punkhurst. Per non parlare del resto del mondo, dove la donna è quotidianamente vittima di abusi e violazione dei diritti umani, che nemmeno lontanamente fanno pensare alla possibilità di farele leggi. Il punto è che, come mostra la mappa storica della concessione del diritto di voto alle donne, questione madre delle rivendicazioni che hanno portato all’istituzione dell’ 8 marzo come Giornata Internazionale della Donna, nel mondo esiste solo uno stato dove le donne non hanno diritto di voto: Città del Vaticano. Lì infatti possono votare solo i cardinali al di sotto degli 80 anni, che per legge sono soltanto uomini.
Ad eccezione del Brunei, dove democraticamente né uomini né donne hanno il diritto di partecipare a elezioni che riguardino la cosa pubblica, nel resto del pianeta vige infatti il suffragio universale. A partire dal 1838, quando per la prima volta le isole Pitcairn, il celebre approdo degli ammutinati del Bounty e delle loro mogli tahitiane nel Pacifico Meridionale, concessero il voto alle donne, seguiti solo 50 anni dopo dall’isola di Man e nel 1893 dalla Nuova Zelanda. Fino alla conquista più recente nel 2011 in Arabia Saudita, dove è stata varata una legge che entrerà in vigore nel 2015, che introdurrà il suffragio universale, anche se la medesima legge impedisce al sesso femminile ancora oggi di guidare.
Anche se avere il diritto di voto non significa evidentemente esercitarlo, almeno sulla carta dunque le donne di tutto il mondo hanno pieno diritto di partecipare alle decisioni pubbliche, quasi sempre alla stregua dei compatrioti maschi. Quasi sempre, perché suffragio universale non è sinonimo di parità di condizioni. A costituire un esempio in tal senso è il Libano, dove sebbene le donne possano votare a partire a 21 anni fin dal 1952, esattamente come gli uomini, per loro vige anche una condizione culturale: devono dimostrare di aver avuto accesso all’istruzione elementare, dettaglio non richiesto invece al sesso forte. In Indonesia inoltre, possono votare solo le donne sposate, indipendentemente dall’età. Per non parlare di situazioni paradossali come il caso del Sudan, dove le donne possono votare dal 1964 a partire dai 17 anni e dove una legge ha stabilito del 2008 di riservare loro il 25% dei seggi dell’Assemblea Nazionale, ma che al contempo prevede che possano essere date in spose a soli 10 anni di età.
Anche in India, il paese in cui esistono treni appositamente per le donne per assicurare loro delle condizioni di viaggio sicure e dove poco più di un mese fa una ragazza è stata condannata allo stupro di gruppo per aver flirtato con un giovane di un’ altra tribù, le donne possono votare, a 18 anni e fin dal 1947, come le italiane. In Afghanistan le donne possono votare da 1963 e – record mondiale – a partire dai 12 anni di età, lo stesso paese dove si viene punite, e non puniti, con la lapidazione per reato di adulterio. Infine, ma la lista sarebbe più lunga, dal 1956 si vota in Egitto, ultimo paese per qualità della vita della donna secondo il report stilato dalla Reuters Foundation nel 2013, e dove secondo dati Unicef le mutilazioni genitali che continuano ad essere la prassi per il 91% delle bambine.
Alla luce di questi dati sembra dunque che il dibattito sollevato più di cent’anni fa in più parti d’Europa dalle varie Pankhurst,Fawcett e Kuliscioff sul ruolo e il significato del voto alle donne si dimostri tutt’altro che desueto.
Autore: Cristina Da Rold | Fonte: wired.it