Diritti LGBT e ordinamento italiano. Una riflessione

Diritti LGBT e ordinamento italiano. Una riflessione

lgbt15/09/2014 – Sono stato invitato a un dibattito alla Festa dell’Unità di Pordenone per ragionare sulla “Sfida dei Diritti” ponendo al centro della nostra discussione lo stato dell’arte relativo alla condizione giuridica delle persone omosessuali nel nostro ordinamento. La mia riflessione è partita da una domanda che mi pare centrata: “Perché negli anni ’70, pur in presenza di un Parlamento con il 40% di eletti nelle liste della Democrazia Cristiana si sono approvate leggi sul divorzio e sull’aborto e oggi – in un contesto politico e istituzionale totalmente piu’ secolarizzato – non si riesce (o non si vuole) approvare una legge volta a dare riconoscimento alle relazioni umane liberamente costituitesi, indipendentemente dal genere dei relati?”.

Per formulare la risposta, mi sento di poter avanzare tre diverse ipotesi, tra loro intrecciate e – lo anticipo – almeno un paio di queste possono prestarsi a una interpretazione controversa. Per schematizzarle, per schematizzare, dirò che la prima è di natura sociopolitica, la seconda relazionale e la terza più strettamente politico-istituzionale.

LA SOCIETA’ PIGRA – Negli anni ’70 l’approvazione di una normativa volta a dare una cornice giuridica a divorzio e aborto non fu il prodotto di un mero accordo tra partiti politici, ma la conseguenza di una spinta proveniente dalla società, grazie a una mobilitazione intensa di movimenti, associazioni, società civile tradizionalmente non schierata, in un contesto di una diffusa politicizzazione, dando una connotazione “bottom-up” a tali fondamentali trasformazioni sociali e politiche.

Ad esempio, comprendere la legislazione sull’aborto sarebbe impossibile se non si tenesse conto dei movimenti femministi del 1977, così come se non si considerasse l’importanza delle presenza nel Parlamento italiano di forze politiche sinceramente e realmente laiche (i socialisti, i repubblicani, i radicali…). Il Partito Comunista, nella sua strategia di affrancamento dal rigore ideologico marxista, accettò di aprirsi alle pulsioni nuove della società per fini anche elettoralistici, mentre pure il partito egemone per definizione – la Democrazia Cristiana – pur con una natura fortemente confessionale, seppe distinguere il legame con la Chiesa dalla laicità delle istituzioni pubbliche (“i vescovi sono stimabilissime persone ma non organi dello Stato” per citare il presidente Scalfaro, pio e abituale frequentatore di meditazioni mariane) e non spinse la propria contrarietà a divorzio e aborto fino a farne oggetto di rottura della coalizione di governo.

Oggi invece – pur con una accresciuta accettazione sociale dell’omosessualità – l’opinione pubblica appare meno portata a mobilitarsi e la classe politica è meno laica, anche nel Partito Democratico. Il cattolicesimo imperante nel PD – però – non è una raffinata e piena adesione ai principi spirituali della Chiesa, ma un bigottismo di maniera, privo di spessore e di riflessione critica. Giulio Andreotti (che come presidente del Consiglio firmò la legge sull’aborto) scriveva libri sui Papi. Oggi invece si twittano frasettine banali sul Papa, del tipo “anche oggi Francesco ha parlato al cuore #iostocolpapa”. E’ una società più superficiale e la battaglia dei valori ne risente.

De-ideologizzazione dei partiti e confessionalismo di maniera sono problemi tra loro collegati, ma la società pigra, la sua scarsa propensione ad attivarsi per imporre il tema dei diritti nell’agenda politica fanno anche venire meno la convenienza per i partiti ad occuparsene, mancando l’incentivo fondamentale del tornaconto elettorale, considerato che – per citare Anthony Downs – “i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni, non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche” (1957).

Una delle ipotesi per spiegare la “pigrizia” diffusa sul tema dei diritti potrebbe anche essere la differenza che esiste tra pensiero privato e pensiero collettivo. Una maggiore accettazione dell’omosessualità e una più diffusa sensibilità sul tema anche dal punto di vista delle soluzioni giuridiche da parte dei singoli si accompagna a una diffusa omofobia sottotraccia a un non-detto spesso favorevole al “don’t ask, don’t tell” che rende difficile l’esportazione della mobilitazione politica al di fuori dei confini strettamente definiti del vivere associativo.

LA COLLATERALITA’ POLITICA – L’assenza di una mobilitazione dell’opinione pubblica e di partiti politici che fanno delle battaglie di laicità civile la loro cifra elettorale potrebbe essere compensata da un’attività di tipo “lobbistico” da parte delle associazioni di tutela dei diritti della comunità LGBT. So che utilizzare il termine “lobby gay” provoca spesso fastidio, ma ricorro a questa espressione in modo molto laico e avalutativo. Se una lobby è “un gruppo organizzato con la finalità di influenzare una decisione politica adottata da organi amministrativi o di governo in conformità ai propri interessi particolari”, allora ogni realtà organizzata che “preme” sul decisore pubblico è una lobby (CGIL, Confindustria, Chiesa…), pertanto la qualità dell’operato di tale lobby si verifica sulla base della sua capacità di raggiungere le finalità per i quali è costituita.

In Parlamento la prima proposta volta a dare una qualche forma giuridica ai diritti delle persone omosessuali risale al 1986 e se in 28 anni non si sono raggiunti risultati è necessario chiedersi per quale ragione l’attività “lobbistica” non sia stata adeguata. Una delle ipotesi che penso possano essere individuate – e so di esprimere un concetto sgradevole – è dato dalla collateralità, dalla profondità dei legami che esistono tra Arcigay (la principale associazione italiana attiva nel campo dei diritti LGBT) e il mondo della politica, del centrosinistra in particolare.

Arcigay – come la Cgil, come Legambiente, come le Acli – è parte dell’arcipelago politico ed elettorale del centrosinistra. In base al bilancio pubblicato sul sito ufficiale (www.arcigay.it) notiamo che nel 2013 circa i 2/3 delle entrate dell’associazione sono dipese da contributi pubblici a fronte di un 20% scarso proveniente da tesseramento. Dire “contributi pubblici” significa dire “politica” e se a ciò aggiungiamo che non sono pochi i dirigenti dell’associazione che negli anni sono stati eletti in Parlamento o nelle assemblee legislative regionali (sempre con partiti del centrosinistra) emerge come il rapporto stretto tra politica e Arcigay possa anche essere a “sovranità limitata” della seconda verso la prima.

Nei modelli istituzionali nei quali l’attività di lobbying ha invece una natura maggiormente professionale, il mondo associativo o degli interessi costituiti sono politicamente più “neutrali” e distaccati. Il tipo di rapporto che viene costituito è orientato allo scopo e la collateralità strutturale ridotta al minimo. Con la conseguenza che il portatore di interesse è più indipendente, più libero nel perseguire le proprie finalità. E quindi – in sintesi – la sua azione risulta più efficace.

LA CENTRALITA’ DEL GOVERNO – L’approvazione di una normativa sul tema dei diritti (non solo LGBT, diciamo dei diritti in generale) è resa difficile anche dal fatto che nel corso degli anni il baricentro decisionale si è spostato dal Parlamento al Governo. Fino a tutti gli anni ’70, infatti, era in auge il principio della c.d. “Centralità del Parlamento”, speculare a una strategia politica e istituzionale volta a coinvolgere il PCI nella cabina decisionale del sistema pur senza includerlo direttamente nell’esecutivo. Dalla metà degli anni ’60, infatti, molte decisioni che in altri ordinamenti vengono adottate a livello di governo vennero trasferite a livello di parlamento e questo portò a una gestione “consociativa” e assembleare dei lavori d’aula che consentiva anche la discussione di testi di legge di iniziativa parlamentare trasversale, come il caso delle leggi Fortuna-Baslini sul divorzio o della 194 sull’aborto.

Per una pluralità di ragioni che non è ora possibile ricordare con completezza, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e in misura sempre più marcata dagli anni ‘90, il piatto della bilancia si è spostato verso il governo. I Parlamenti sono diventati sempre più spesso organi di ratifica della volontà degli esecutivi e la dicotomia “maggioranza-minoranza” sui singoli temi dentro l’assemblea è stata assorbita dalla più dirompente divisione politica tra governo e opposizione. Per essere chiari, in Parlamento si discute solo di quello che decide il governo e il governo non da rilevanza ai temi civili e sociali, preferendo orientare la propria azione su quelli economici.

Il governo non fa o – se fa – sbaglia. Nel 2006 vennero formalizzate alcune proposte in Parlamento volte a dare una struttura giuridica alle unioni anche omosessuali e una di queste venne presentata dalla componente laica di Forza Italia (primi firmatari Fabrizio Cicchitto, Stefania Craxi, Renzo Tondo). Si iniziò un dialogo nella commissione competente tra “liberal” dei due schieramenti per costruire un testo condiviso ma il governo si mise in mezzo con la propria proposta sui “Di.Co” mirando a intestarsi il processo di riforma…Questo portò – ovviamente – all’attivarsi del riflesso condizionato dell’opposizione al governo da parte della componente di Forza Italia e – subito dopo – riemersero i timori dentro la parte confessionale del centrosinistra e tutto venne accantonato. E penso che ci possiamo ricadere, basta vedere lo stop opposto dall’esecutivo al D.d.l a prima firma Luigi Manconi, sul quale la commissione Giustizia del Senato (e la relatrice Cirinnà in particolare) stanno lavorando, con la motivazione che “arriverà un testo di iniziativa del governo”.

Resto convinto che non sia compito dei governi dare indicazioni su temi etici o valoriali ma che su questo la via maestra sia una sola: la libera azione dei Parlamenti e la loro autonomia dalle indicazioni del potere esecutivo.

Queste sono le tre ragioni che – a parer mio – aiutano a spiegare la lentezza della politica italiana a prendere atto dei cambiamenti in corso nella società. Non sono ragioni strettamente collegate tra loro, ma ognuna concorre a dare un pezzo di ragione. La verità – ed è una dura verità – è che negli anni ’70 la Politica era al passo con la parte più avanzata della società e più avanti della parte media, mentre oggi è disperatamente in ritardo, intenta ad arrancare rinviando soluzioni a problemi per i quali la nostra società è pronta da anni e negando ai propri cittadini uno status giuridico non negato in nessuna delle grandi democrazie del Mondo…

Ringrazio Alberto Baliello, Giacomo Davanzo, Franco Goio e Davide Soto Narajo per i suggerimenti e le osservazioni

Marco Cucchini | Poli@rchia ©

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