Politik als Beruf

Politik als Beruf

chess01/09/2014 – Nella celebre conferenza del 1919 sulla “Politica come Professione”, Max Weber ricordava come un uomo politico debba avere tre qualità: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Sono tre qualità valide ancora oggi e che ne contengono inevitabilmente delle altre: visione etica e ideale, senso delle istituzioni, senso del limite, cultura, capacità di leadership, coraggio di andare oltre la scadenza elettorale più ravvicinata per fare quello che è giusto, non quello che conviene. Insomma, un pacchetto di caratteristiche umane e intellettuali che non si improvvisa dall’oggi al domani e che invariabilmente porta a considerare la politica come qualcosa che richieda inevitabilmente un certo livello di professionalità.

In realtà, la conferenza di Weber conteneva qualcosa di ambiguo già dal titolo: “Politik als Beruf”… Beruf deriva dal verbo “berufen” che significa “essere chiamati” ma il sostantivo significa “professione”. Politica come vocazione o come mestiere quindi? Statisti o mestieranti? Riflettevo su questa questione stamani, mentre analizzavo il profilo professionale dei consiglieri regionali del PD dell’Emilia Romagna. Quel grande partito interclassista e di massa da sempre al governo in una regione ricca, colta e pluralista elegge solo burocrati di apparato, sindacalisti, ex amministratori pubblici, ex lottizzati delle partecipate, insegnanti e donne murate vive nelle commissioni di pari opportunità dai tempi di Alessandro Natta…

Perché questo è un problema? Perché la politica democratica è fatta sia di decisioni, che di capacità di dare voce alla complessità socioeconomica e culturale di società pluraliste come quelle contemporanee e dunque la semplice libera espressione del voto è necessaria ma non sufficiente per qualificare positivamente un regime democratico. Servono comprensione profonda dei problemi, equilibrio nella scelta delle politiche, capacità di mediazione tra interessi contrastanti. Per questo il politico non può che essere un “professionista”, uno cioè che legge oltre gli interessi della propria casta di appartenenza (professionale, territoriale, culturale o cetuale).

Però, come noto agli studiosi della politica, i politici di professione non sono attori neutrali, ma sono portatori essi stessi di interessi di categoria. Anzi, sono la sola categoria professionale che può in totale autonomia scriversi il proprio quadro normativo di riferimento, anche dal punto di vista retributivo e quindi il loro monopolio semiassoluto delle cariche elettive crea un problema di rappresentanza del resto della comunità. Il problema però è che la cosiddetta “società civile” non è portata a impegnarsi in prima persona. Chi ha un’attività professionale o imprenditoriale spesso non può o non vuole sacrificare del tempo e delle energie per destinarle all’ambito pubblico, mentre chi è dipendente del settore privato il più delle volte non dispone delle opportunità e delle risorse necessarie per provarci.

Si crea quindi un circolo vizioso: la “società civile” critica i politici per essere “autoreferenziali” e per fare i propri interessi, ma al momento del dunque solo una minoranza di persone decide di impegnarsi in modo diretto, molte di meno di quante lo facevano 25 anni fa. Nel 1990 – quando stava per iniziare la crisi della I Repubblica –  gli italiani iscritti a partiti politici erano circa 4.500.000 su complessivamente 43.000.000 di inseriti nelle liste elettorali, vale a dire un iscritto ogni 9 elettori e mezzo. Oggi – invece – si ritiene credibile (pur nella manchevolezza di dati certi) che facciano parte di partiti politici non più di 800.000 elettori su complessivi 50.600.000 iscritti alle liste elettorali, vale a dire un tesserato ogni 63 elettori.

Questo crollo verticale ha interessato – naturalmente – la parte di militanti meno motivati politicamente ma anche meno legati alle logiche di scambio e di potere proprie del processo politico (vale a dire l’accesso al governo e al sottogoverno) e quindi la parte di cittadini che fa politica nei partiti, molto spesso lo fa in quanto contigua con l’allocazione di risorse e benefici che il sistema può erogare. Sono – quindi – non del tutto “società civile” ma almeno in parte “classe politica”.

Periodicamente, nuovi soggetti si avvicinano alla politica in presenza di fasi di trasformazione organizzativa o di elevata volatilità elettorale. Penso alla “stagione dei sindaci” della metà degli anni ’90, all’avvento di Forza Italia o più recentemente del M5S, ma l’elevato livello di gratificazione economica o di status che l’accesso a ruoli politici comporta, spesso unito a un basso carico di impegno individuale richiesto, ha fatto si che i cittadini “prestati alla politica” non siano più stati da questa restituiti. Acquisiti dal sistema per usucapione.

Il problema della ridotta capacità di attrazione dei partiti politici si accompagna ad una più scadente qualità nella classe politica. I partiti della I Repubblica formavano la propria élitedirigente e non lasciavano nulla o quasi al caso: i progressi nel cursus honorum erano pianificati, negoziati, legati da logiche correntizie, ideologiche o rappresentative e quel sistema soffocante e spesso corrotto (ma non più soffocante o più corrotto dell’attuale) aveva per lo meno il vantaggio di mantenere in piedi un quadro di valori condivisi minimo e un lessico istituzionale comune. Una distinzione tra “fair” e “unfair” che noi abbiamo totalmente perduto. Quindi l’accresciuto tasso di professionismo non si è accompagnato con un parallelo accresciuto tasso di professionalità in chi occupa cariche di partito o di governo.

Se la politica è inevitabilmente destinata a rimanere “professionale”, porsi il problema di rafforzarne il livello di qualità e di rappresentatività è inevitabile. E per questo vi sono tre vie, tra loro intrecciate:

  1. Ricostruire il filo spezzato tra eletti ed elettori. Ad ogni livello servono sistemi elettorali realmente competitivi, tali da garantire ai cittadini l’effettiva possibilità di scelta, premio o sanzione. L’ideale sarebbe una competizione su collegi uninominali, ma anche le preferenze sono migliori del modello esistente;
  2. Regolamentare la rappresentanza istituzionale degli interessi. Finiamola di ritenere che le lobby siano collegate con la corruzione politica: lo sono solo se e in quanto non regolamentate dalla legge e infatti i paesi dove esiste una normativa volta a disciplinare la rappresentanza di interessi particolari nel processo decisionale hanno un tasso di corruzione politica inferiore al nostro. E – cinicamente – potrei anche dire che rappresentare una lobby è pur sempre meglio che non rappresentare nulla;
  3. Restituire professionalità alle professioni legate alla politica. Il Parlamento Europeo, il Parlamento nazionale o i consigli regionali distribuiscono ingenti risorse per gli staff degli eletti. Nel pessimo costume nazionale, tali risorse non sono quasi mai impiegate per assumere professionisti nelle materie politiche di competenza, ma il più delle volte si usano per fare favori ad amici, a compagni di partito o per mere funzioni di segreteria. Servirebbero esperti in legistica, in politiche europee, in diritto parlamentare… invece si danno poche centinaia di euro (spesso in nero) a giovani precari deprofessionalizzati perché tengano l’agenda con gli inutili impegni dell’eletto. Perché – siamo onesti – a chi serve che il deputato del PD vada alla festa del PD a parlare con gente del PD?

Rappresentatività, responsabilità, competenza… Questo servirebbe. Ma per ottenerle sarebbe necessario non solo un progresso etico e culturale (che non si po’ ottenere per decreto), ma anche un nuovo apparato di norme. Cioè qualcosa che dovrebbero scrivere i politici stessi. E siamo – di nuovo – al cane che si morde la coda…

Marco Cucchini | Poli@archia (c)

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