08/07/2014 – Scena n. 1. Alcuni anni fa… Roger Federer all’apice della sua inattaccabile gloria durante un evento pubblico si trovò seduto tra i giocatori a tennis su sedia a rotelle e dopo pochi minuti, un solerte responsabile del cerimoniale si precipitò per proporgli una sistemazione “più consona”. Roger replicò dicendo che non era necessario cambiare posto perché “sto bene qui, con i miei colleghi”. Non posso immaginare pienamente la commozione e l’orgoglio di chi – colpito dalla vita – con fatica e sacrificio, con chissà quanti ostacoli (fisici e non) da superare ha tenacemente perseguito il sogno di sentirsi vivo e vitale al 100% giocando al proprio sport preferito e un giorno si è sentito definire “collega” da chi – di quello sport – rappresentava allora la massima espressione tecnica, sportiva e umana. Facciamo lo stesso lavoro, quindi siamo colleghi. Questa la semplice, pulitissima lettura dei fatti di Roger Federer e la sua lezione umana. Che magari – per inciso – preferiva parlare di tennis con un “collega” in sedia a rotelle, piuttosto che di soldi con un banchiere sponsor di qualche cosa…
Scena n. 2. Alcuni giorni fa… Il giovane e semisconosciuto Kyrgios ha battuto sul centrale di Wimbledon in numero 1 del Mondo, Rafael Nadal. Terminato il match, il piccolo Nicky era tutto un salto, un lazzo e una piroetta per l’inattesa vittoria, avvenuta non in un torneo di secondaria importanza (che già non sarebbe stato per niente male), ma addirittura nella Cappella Sistina del tennis. E mentre Nicky festeggiava felice la giornata più bella della sua vita, in un angolo, con la sacca in spalla, Nadal attendeva con pazienza e compostezza che il suo avversario finisse la sua carambola per poi poter lasciare assieme il centrale. Si entra assieme, si esce assieme. Non è scritto da nessuna parte, non è un obbligo regolamentare. E’ un atto di cortesia e Rafael Nadal – che sul campo è un serial killer – nella vita è una persona cortese.
Scena n. 3. Alcune ore fa… Novak Djokovic ha appena vinto il suo secondo Wimbledon, giocando una delle finali più belle degli ultimi anni contro Roger Federer, tornato a tratti l’Essere Supremo che tanti di noi amano. Nel suo discorso di commento, Djoko ha citato e ringraziato la sua prima maestra di tennis, Jelena Gencic, che ancora bambino gli insegno “tutto quello che serve in campo e fuori” per essere un campione. E su queste frasi ha alzato verso il cielo la coppa dedicandola alla maestra recentemente scomparsa.
Queste scenette non le ho ricordate per dipingere santini elegiaci di tennisti sensibili. Servono semplicemente a sottolineare che essere i più bravi non basta. Per essere “leader” bisogna anche comportarsi da leader. Essere leader significa essere dei punti di riferimento etico e morale, significa essere rappresentativi dell’essenza stessa della comunità (in senso ampio) di cui si è espressione. Significa essere capaci di aggregare e non dividere, perché l’essenza della leadership non è l’autoritarismo, ma l’autorevolezza. E’ una lezione del tennis che non farebbe male alla politica, almeno alla nostra, dove di leader non se ne vedono da un bel pezzo e i caporioni sono invece in sovrabbondanza.
I leader uniscono il loro Paese, non lo dividono in due come una mela. Le grandi figure costruiscono l’identità di una nazione, oppure contribuiscono a salvaguardarla, a difenderla… E quando hanno dovuto dividere, questo è avvenuto su un progetto politico più alto. Come John Kennedy che ha diviso gli Stati Uniti sul tema dei diritti civili o come Pieter Botha che ha posto fine all’Apartheid in Sudafrica, accettando di pagare il prezzo della fine della propria carriera politica e del declino del proprio partito.
Questo spirito di unione, questo rispetto dato prima di essere ricevuto, questo essere autorevoli e non autoritari non lo si vede nell’azione del presidente del Consiglio. La battuta di ieri su Mineo e Minzolini è stata sciocca e inutile, ma è indice di un modo di concepire le relazioni con chi dissente. Il premier non mira a convincere, a esercitare una potestas frutto di autorevolezza personale. Mira a vincere, anzi stravincere. Vuole vedere l’avversario con la faccia sulla polvere…
Quando Matteo Renzi venne eletto segretario del PD, Giovanni Sartori obiettò che forse non aveva la “gravitas” necessaria per essere un leader. Obiezione tutto sommato lecita, alla quale nel “cerchio magico” renziano si rispose trattando Sartori da vecchio rimbambito. Da quando “Matteo” è in carica, infatti, non sono mai mancati moti di scherno o vere e proprie ingiurie anche quando, forse, il risultato sarebbe stato possibile ottenerlo in modo meno conflittuale cercando di costruire consenso diffuso sulle proprie proposte o strategie. Caso lampante è il trattamento brutale riservato a Enrico Letta in modo sistematico, ma non solo a lui… Il dissenziente è deriso, mortificato, fatto aggredire da mirmidoni e valchirie (come accadde al presidente del Senato Grasso) e dopo il risultato elettorale trionfale, il piglio da “vae victis” è quello che prevale, contribuendo a generare inquietudine in chi non ama l’idea di una riforma costituzionale tutta pensata per rafforzare l’esecutivo.
E sul tema delle riforme, infatti, si manifesta questa incapacità di essere autorevoli e questa tendenza ad essere autoritari… Chi critica è demonizzato anche se poi di quelle critiche si fa in qualche modo tesoro: la riforma del senato è stata modificata più volte, passando da pessima (la prima versione) a criticabile (quella attuale)… Le critiche ne hanno migliorato il testo senza svilirlo, ma chi ha avanzato un contributo non è stato ringraziato. E’ stato preso a sberle e minacciato. Certo, è indubbio che in molte delle proposte di modifica vi sia il desiderio di fare melina e bloccare tutto (ad esempio, l’improvviso attivismo del M5S sulla riforma elettorale da questa sensazione), ma la strada seguita in questo caso è quella corretta: si apre una consultazione e si vede.
Il punto è che in politica la forma è importante quasi quanto la sostanza. La legge elettorale nota come Italicum o la proposta di riforma del Senato non sono “Satana”. Sono costruzioni normative con qualche pregio e qualche difetto, riflettere laicamente senza ultimatum o battute fuori luogo dovrebbe essere un impegno morale, prima che politico.
Fare la fatica di costruire il consenso non è facile, la tentazione della prova di forza è comprensibile. Ma – appunto – qua sta la differenza tra essere leader e essere capi. Il problema è che la leadership, più che un atteggiamento politico è una qualità morale e purtroppo, così come il coraggio di Don Abbondio, se non la si ha, non se la si può dare…
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)