I giornali riportano che Beppe Grillo, novello Caudillo della Risata ha deciso di promuovere una rete di liste civiche non con il proprio nome, ma con un bollino di garanzia che ne testimoni rettitudine e conformità con la Weltanshaung del comico medesimo.
Intendiamoci, un successo potrebbe – in linea teorica – non essere escluso. Nel 1992 un gruppo di comici promosse un “Partito Monarchico Indipendentista” che si presentò alle elezioni politiche dell’Estonia con il programma puro e semplice di offrire il trono a un membro della Casa Reale Svedese. Era una burla, che ottenne però oltre il 7% dei consensi. Più di quanto non abbiano da noi l’UDC, RC o la Lega Nord. Oppure ricorderei il caso del partito degli “amanti della birra” che nel 1991 ottenne 16 seggi alla Dieta polacca, ma anche nella felice Italia gli esempi bizzarri non sono mancati. Negli anni ‘50 un giornalista specializzato in enigmistica lanciò il “partito della Bistecca” (proponeva una bistecca per tutti, ogni giorno, così da risolvere i problemi italiani, gotta esclusa si intende…), negli anni ‘80 venne eletta in parlamento una pornostar di fama e in fondo, come diceva la mia nonna, ogni filo d’erba fa la sua ombra, che tradotto in politica significa che ogni lista qualche voto lo piglia..
Battute sciocche a parte, l’idea di Grillo (liste civiche di incensurati non iscritti ai partiti, con il suo bollino di garanzia nella schiena) è destinata al fallimento, per tre ragioni collegate con il grande principio dell’Autonomia della Politica, scienza con regole e meccanismi propri, come codificato 5 secoli fa da Niccolò Machiavelli, che ne descrisse acutamente modalità e ragioni della separazione dell’agire politico dalla sfera etica, da quella morale e da quella religiosa.
In soldoni, molto in soldoni, Machiavelli diceva che certo esiste il bene ed esiste il male, esiste il lecito come il non lecito. Ma ottenere successo in politica presuppone la capacità di tenere comportamenti che pongano sempre al centro il fine da raggiungere (il famoso “fine che giustifica i mezzi”, una delle frasi più fraintese di sempre, che – tra l’altro – Machiavelli non hai pronunciato o scritto), subordinando a questo altre considerazioni relative al “metodo” e fermo restando un equilibrio tra mezzi e fini.
Senza farla troppo lunga, prendendo per buono il progetto grillesco (dare vita a liste civiche che conquistino i comuni, promuovendo forme di governo diretto da parte dei cittadini), si possono individuare 3 sicuri elementi che ne rendono inevitabile il naufragio, prima ancora che la nave salpi…
- L’impossibilità di una effettiva ”democrazia diretta”
- La natura della competizione elettorale
- La peculiarità della partecipazione politica nei movimenti
Vediamoli procedendo con ordine…
- Democrazia diretta vs democrazia rappresentativa
Distinzione tanto antica e nobile, quanto ormai inutile. Democrazia diretta presuppone un popolo direttamente governante, come nell’idealtipo dell’Atene di Pericle o un di qualche fortunato comune del nord Italia o del Baltico, durante gli anni vivaci e tenebrosi del Medioevo. Improponibile. La politica contemporanea presuppone, anche a livello di pura e semplice amministrazione comunale, un flusso continuo di decisioni altamente specializzate e tecnicamente complesse. Ipotizzare che il cittadino possa deliberare su ciascuna di queste (anche solo a livello di indirizzo generale) è del tutto demagogico e improponibile, infantile o (peggio) disonesto. Per deliberare bisogna conoscere e anche conoscendo non è facile deliberare con serenità. Il sottoscritto, ad esempio, pur essendo oggettivamente esperto in questioni connesse con i sistemi elettorali, quando si è trattato di essere chiamato ad esprimersi in via referendaria su questi temi ha sempre deposto scheda bianca. Perchè le questioni non sono risolvibili facilmente con un “si” o con un “no”. E qui, giungo al secondo iceberg contro il quale la nave corsara di Grillo andrà a infrangersi.
- La natura della competizione elettorale
Grillo vuole conquistare i comuni. Escludendo la sommossa, l’alternativa è – coerentemente con l’art. 49 della Costituzione – la lotta per il potere “con metodo democratico”, vale a dire partecipando alle elezioni. Il che è per definizione l’opposto della battaglia del Bene contro il Male. Partecipare alle elezioni significa costruire un consenso tendenzialmente maggioritario attorno ad una serie articolata di proposte (non voglio neppure pensare che la campagna dei Grillo-boys si giochi solo attorno a un pugnetto di slogan buoni per ogni epoca e per ogni contesto geografico e socio-economico), che presuppone capacità di convincimento, umiltà nel tessere alleanze (sapendo su cosa tenere duro e su cosa mollare) e – soprattutto – saper adottare scelte impopolari, che è sempre il passaggio più difficile per i Santoni dall’ego molto sviluppato (come Grillo sta diventando).
Grillo si accorgerà che non è per nulla facile. Siamo tutti bravi a predicare il rigore per gli altri. Dopotutto, una buona maggioranza delle priorità che vengono elencate è già perseguibile oggi, direttamente. Uno stile di vita ecocompatibile, una certa sobrietà nei comportamenti quotidiani, una maggiore attenzione nei confronti dei nostri rappresentanti, un più elevato spirito critico, una più forte attenzione all’interesse collettivo, piuttosto che a quello individuale…beh, sono tutte cose che possiamo fare ogni giorno, senza bisogno di liste civiche certificate o “vaffaday” verso questo o quello. Grillo traccia una linea di divisione tra la “ggente” (per definizione onesta, buona e vessata) e i politici ma siamo proprio sicuri che gli elettori siano senza colpa?
Perchè – in democrazia – un Paese ha sempre il governo che si merita. E anche l’opposizione.
- La politica “in movimento”
I partiti sono brutti, sporchi e cattivi (spesso è vero), i movimenti sono belli. Quante volte non abbiamo avuto a che fare con sciocchezze del genere? il movimento per le “Mani Pulite”, quello “Antimafia”, quello “pacifista”, quello “no-global”…tutti condivisibilissimi, per carità. Tutti capaci di avere le prime pagine dei giornali. E tutti durati un battito di ciglia.
La debolezza dello strumento “movimentista” è intrinsecamente collegata con i suoi pregi. I movimenti sono strutturalmente all’opposto dei partiti: sono “a-gerarchici”, informali, organizzati a rete, non burocratici, costruiti per obiettivi semplici e condivisibili inevitabilmente di elevato spessore etico-morale, capaci di sollecitare l’impegno intenso di moltitudini (spesso giovani e donne, cioè le categorie escluse dalla politica “partitica”). Si entra senza formalità, chiamati da un amico o dalla fidanzata, si partecipa alle riunioni, si fa la fiaccolata o il girotondo, si afferma la “limpieza de sangre” di se stessi contro i partiti, si sostiene scelte inevitabilmente “dure e pure” e poi, alla fine, ci si scontra con la realtà. Vale a dire la complessità dei mille passaggi richiesti per la decisione politica, l’impossibilità di tradurre in scelte concrete e immediatamente operative il proprio rigore ideale, la lotta cannibalica tra chi – nel movimento – ha il sangue più puro (l’eterno conflitto tra rivoluzionari e riformisti, che è stato la pietra tombale della sinistra italiana).
Posti di fronte alla realtà, una minoranza si adatta, una assoluta e folle minima minoranza si da a pratiche eversive (non sempre, ma talvolta). La maggioranza torna a casa scornata, anche per quell’alternarsi tra impegno pubblico e dimensione privata che contraddistingue la vita di molti di noi. E il movimento rapidamente nasce e rapidamente muore.
Trasformare il movimento in una realtà che si presenti con successo alle elezioni – fossero pure comunali – presuppone il suo trasformarsi in partito, perchè questo e non altro è una “associazione volontaria di persone unite da un programma e con la finalità di competere in libere elezioni”. E questo significa la capacità di risolvere una moltitudine di problemi organizzativi (raccogliere firme, gestire finanziamenti, rispettare scadenze), affrontare l’inevitabile scontro delle candidature, dialogare con gli altri per tessere alleanze e – Dio non voglia – in caso di vittoria, saper governare la realtà territoriale che ci ha visto trionfare. Il che presuppone – ancora – capacità di dialogo, di mediazione tra interessi contrapposti, rispetto di procedure istituzionali e assenza di fanatismi.
Insomma, per troncare questa lenzuolata di chiacchiere, passare dalla protesta alla proposta è complicatissimo e penso che ne Grillo ne i suoi abbiano gli strumenti per farlo. E a Grillo manca soprattutto l’umiltà e la capacità di ascolto, visto come copre di insulti tutti coloro che – timidamente – avanzano dei dubbi o sollevano obiezioni. E non parliamo di Binnu Provenzano, ma delle raffiche di insulti piovute su Eugenio Scalfari o Nanni Moretti, colpevoli di non essere troppo grillisti.
In conclusione, non sono iscritto a un partito e sono incensurato. Ho dunque le due sole qualità richieste per fare politica nel mondo felice di Grillo. Ma me ne starò ben lontano dalla sua armata Brancaleone e dagli inevitabili casini organizzativi, fraintendimenti progettuali e opportunismi individuali che la sommergeranno…