Questa settimana – salvo colpi di scena – dovrebbe iniziare con Giorgio Napolitano presidente della Repubblica e terminare con Pietro Grasso provvisoriamente al Quirinale, “facente funzione” in attesa dell’elezione del nuovo presidente.
I giornali e i siti web sono pieni zeppi di retroscena (più o meno inventati), ipotesi (più o meno campate per aria), speranze e umori cattivi. Per parte mia non intendo certo fare nomi, previsioni o profezie, voglio solo limitarmi a mettere in fila alcune cose che abbiamo imparato dalle elezioni del passato, cercando nelle prassi, nella tradizione e nei cattivi vezzi della classe politica qualche pallida indicazione sul futuro…
♦ Come funziona
Quasi tutto quello che c’è da sapere lo si trova negli articoli 83, 84 e 91 della Costituzione. Il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune integrato da 58 delegati, eletti dai consigli regionali. Quando il parlamento si riunisce congiuntamente, sede, presidenza e regolamento sono quelli della Camera dei Deputati (art. 63,2).
Per i primi tre scrutini il quorum richiesto per l’elezione è quello dei 2/3 dei membri (vale a dire 672 voti), mentre dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta (505 voti). Non sono previsti ballottaggi (contrariamente a quanto avviene per l’elezione del presidente del Senato) o ulteriori diminuzioni del quorum.
Una volta eletto, il presidente della Repubblica entra nella pienezza delle sue funzioni solo dopo il giuramento reso davanti al Parlamento in seduta comune (art. 91). Malgrado la Costituzione non lo preveda, prassi vuole che il presidente in quell’occasione indirizzi un messaggio al Parlamento e al paese. Enrico de Nicola e Luigi Einaudi se la cavarono con poche frasi di elegata circostanza mentre, dal messaggio di Giovanni Gronchi in poi, i discorsi di insediamento sono diventati più articolati e non di rado con un profilo politico decisamente marcato (su questo, il più politico di tutti è stato il secondo di Giorgio Napolitano, nel 2013).
♦ Quanti scrutini?
Non esiste una regola o la possibilità di fare previsioni. Vi sono state elezioni al 1° scrutinio (Enrico de Nicola, Francesco Cossiga o Carlo Azeglio Ciampi), elezioni al 4° (Luigi Einaudi e il primo mandato di Giorgio Napolitano) e elezioni più traumatiche, trascinate per giorni (su tutte il “conclave” del 1971, che elesse Giovanni Leone al 23° scrutinio, dopo che la DC aveva bruciato Amintore Fanfani, candidato ufficiale ma dal carattere intrattabile. Possiamo dire che vi sono stati presidenti di indiscussa qualità sia tra quelli eletti al primo colpo (Ciampi, ad esempio), sia tra quelli eletti al quarto (Einaudi), sia tra quelli eletti dopo una battaglia prolungata (Pertini), pertanto non vi è un legame tra il valore politico dell’esito e le tempistiche dell’elezione.
Questo per dire che non serve avere l’ossessione della fretta, quanto del far bene… Meglio un buon presidente eletto al 15° scrutinio che uno mediocre eletto al 4°. Sembra una considerazione banale, ma non lo è, se solo ricordiamo il senso di panico dei parlamentari nel 2013, costretti dalla “twittercrazia” a “fare in fretta, sbrigarsi, che il Paese sta precipitando nel vuoto!”
♦ Presidenti e Premier
Ogni presidente del Consiglio ha intrigato per far eleggere un capo dello Stato “amico”, un supporter silente delle sue politiche e dei suoi interessi, ma nessuno c’è riuscito, neppure De Gasperi che nel 1948 puntava su Carlo Sforza e ha dovuto accettare Luigi Einaudi (caspita, Einaudi un ripiego! che anni meravigliosi…). Ho cercato di riassumere un po’ come andarono le cose con la tabella sottostante…
Errata Corrige: al posto di Silvio Berlusconi (2013) Mario Monti
Nelle difficoltà che i presidenti del Consiglio hanno costantemente incontrato nell’imporre il proprio nome si individua il sano desiderio dei parlamentari di difendere il Quirinale quale organo di “contropotere” nei confronti del Governo, in una logica di rispetto della sua natura di garanzia e in un quadro di check & balances istituzionale necessario per la qualità del confronto politico e democratico. Però il segreto del voto è stato anche utilizzato per vendette, per intrighi, per uccidere carriere politiche e per far cadere governi… Insomma, protetti dai pesanti confessionali in mogano (imposti da Oscar Luigi Scalfaro nel 1992 per tutelare la segretezza del voto) i parlamentari usano l’arma del voto per mandare segnali, per manifestare malumori o paure, per incoraggiare o per indebolire questo o quel leader…
E così, nel 1962 il presidente del Consiglio Fanfani cercò di impedire il successo della candidatura di Antonio Segni perché sapeva che questi era tenacemente contrario alla politica di apertura a sinistra che lo scaltro aretino aveva da poco inaugurato, ma non vi riuscì. Nel 1971 fu la volta di Fanfani a cadere vittima degli intrighi che lui aveva stesso aveva già ordito in passato, con una candidatura che non riuscì mai a decollare veramente… Nel 1978 si dava per scontata l’elezione di Aldo Moro, ma il suo assassinio e le improvvise (nonché imbarazzanti) dimissioni di Leone sprofondarono la DC nel buio… non esisteva un candidato “vero” e quindi emerse Pertini, ma ci vollero ben 16 votazioni.
Nel 1985 il capo del governo Craxi non aveva un proprio nome. Gli era sufficiente che fosse un democristiano per evitare di indebolire il governo a guida socialista. La scelta cadde su Francesco Cossiga, stimato e un po’ sbiadito, che per 5 anni (su 7) esercitò il mandato in modo notarile e un po’ incolore. Lo stesso discorso si può fare per l’elezione del 1999 (Ciampi) e del 2006 (Napolitano). In entrambi i casi il presidente del Consiglio (in carica o in pectore) non aveva il “suo” nome, voleva solo evitare rogne.
Le due elezioni più traumatiche furono quelle del 1992 e del 2013. Nel 1992 il Vecchio Mondo stava franando, eppure gli Shogun del potere partitocratico pensavano che tutto fosse come una volta. Come il Principe Prospero del racconto di Edgar Alla Poe che spera di tenere la Morte Rossa fuori dal proprio castello solo sbarrando le porte. Lo scontro vero fu tra Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti mentre Bettino Craxi stava in un angolo, nella speranza di riuscire a ritornare a palazzo Chigi… Forlani giunse a -28 voti dall’elezione, ma i franchi tiratori andreottiani logorarono lui e dopo di lui Giuliano Vassalli e Giovanni Conso. Ci volle il sangue di Giovanni Falcone per sbloccare una situazione drammatica e apparentemente senza uscita…
Nel 2013 le cose sono note. Il PD di Bersani aveva non vinto le elezioni, la scelta di un candidato di “conservazione” come Franco Marini si rivelò pessima e nel segreto dell’urna Romano Prodi venne impallinato dai famosi 101 franchi tiratori, i mandanti dei quali furono Massimo D’Alema e Matteo Renzi, che oggi teme che il trucchetto che gli aprì la strada di palazzo Chigi possa ripetersi ai suoi danni…
♦ Chi viene eletto?
Per oltre 30 anni il tema fu quello dell’alternanza tra laici e cattolici. Oggi pare si vogliano inserire variabili nuove (“il politico”, “il tecnico”, “il notaio”, “la donna”, “il giovane”, “il saggio”…). Dal passato sappiamo che – in linea generale – le caratteristiche tipiche del winner sono l’essere colto, vecchiotto, distinto, un po’ sbiadito politicamente ma con grande prestigio personale. Nessun leader di grande partito è mai diventato presidente della Repubblica (anche se molti ci hanno provato: Fanfani, Andreotti, Forlani, D’Alema), mentre su 10 presidenti eletti, 7 erano stati in precedenza presidenti di assemblea (1 presidente della Costituente, Saragat; un presidente del Senato, Cossiga; 5 presidenti della Camera, Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano) e 2 furono governatori della Banca d’Italia (Einaudi e Ciampi). Il solo Antonio Segni era un politico dal profilo non “istituzionale”, cioè non super parters.
Questo farebbe propendere per nomi come Mario Draghi o Pietro Grasso. Oppure, andando a ritroso, Luciano Violante, mentre sarebbe una novità assoluta la scelta di un ex presidente della Corte Costituzionale, o anche di un semplice giudice.
Certo, tutto questo si scontra con la costante voglia di stupire del premier Matteo Renzi e il suo evidente fastidio per qualsiasi forma di contropotere, vista inevitabilmente come un “rallentamento” della sua folle corsa verso un futuro tanto radioso quanto indefinito. Per questo, la tentazione di far eleggere una personalità politicamente insapore e a sovranità limitata (ad esempio, una Pinotti o un Delrio) può essere forte… Ma grazie al cielo ci sono i confessionali in mogano a tutelare la dignità del Quirinale.
Per intanto, con l’abdicazione di Giorgio II, a norma di Costituzione, al Quirinale salirà Pietro Grasso presidente facente funzione in attesa della nomina del nuovo capo dello Stato… Quanto starà Grasso al Quirinale? 2 settimane? un mese? o forse 7 anni?
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)