Il futuro del lavoro nella comunicazione politica e sindacale che non c’è

Il futuro del lavoro nella comunicazione politica e sindacale che non c’è

06/02/2015 – In ogni luogo e a qualsiasi ora, orientato al risultato, personalizzato, basato sulle tecnologie collaborative; immerso nell’apprendimento continuo e tra pari. E’ il lavoro del futuro come lo descrive Jacob Morgan nel libro The future of Work. Non solo un’analisi dei cambiamenti organizzativi e delle dinamiche di carriera che stanno interessando il mondo del lavoro negli Stati Uniti, bensì una scommessa sulle tendenze globali.

Una previsione che fa il paio con le segnalazioni di quanti, sempre in America, osservano che il lavoro autonomo sta crescendo a ritmi sorprendenti, tematizzando un possibile futuro del lavoro fatto prevalentemente di professionisti indipendenti. L’andamento del ricorso al lavoro autonomo è quindi un interessante invito a immaginare una svolta generale nell’adattamento alla grande trasformazione che sta rendendo il lavoro sempre meno gerarchico e standardizzato.

Parlare di lavoro autonomo è però di per sé già fuorviante. E’ infatti lo stesso schema concettuale che separa lavoro autonomo e lavoro subordinato a risultare ormai inadeguato a leggere i cambiamenti del lavoro. Le proprietà di questa mutazione sono quelle normalmente attribuibili al lavoratore indipendente, ma estese ora, seppur asintoticamente, alla generalità dei rapporti di lavoro. Per questo uno siffatto scenario costituisce una sfida epocale sia per la politica sia per il sindacato: una sfida per la rappresentanza nell’era della flessibilizzazione dei processi produttivi, organizzativi e sociali.

Una sfida organizzativa e comunicativa per politica e sindacato

Ciò che mette in crisi le organizzazioni è l’attaccamento alla visione tradizionale della dimensione collettiva del lavoro. Quella che va delineandosi sarebbe infatti una nuova prospettiva facilmente equivocabile come individualista, ma che in realtà prefigura un’autonomia operativa combinata con la partecipazione a un processo di squadra, dove professionalità in continua evoluzione contribuiscono al medesimo risultato finale.

Per logica conseguenza il sindacato, ma anche i lavoratori in prima persona, si domandano come aggregare e organizzare una rappresentanza, se e come continuare a esercitare la contrattazione.

Politica e sindacato si trovano però in questi anni al crocevia con un altro cambio di paradigma: quello che ha ormai investito la comunicazione. Lungi dall’essere una questione ancillare o parallela, la mutazione degli assetti comunicativi e la moltiplicazione delle leve d’azione interagiscono strutturalmente con lo sviluppo del futuro organizzativo.

Futuro del lavoro e futuro della comunicazione condividono comprensibilmente molte caratteristiche essendo frutto di un medesimo contesto socio-tecnologico globalizzato. Nei paesi avanzati, come si tende a passare dalla compattezza identitaria dell’operaio massa alla frammentazione delle comunità professionali, dall’organizzazione fordista del lavoro alla flessibilità, allo stesso modo si passa dai processi centralizzati di costruzione dell’opinione pubblica alla “distribuzione” del dibattito sociale, dal rapporto unidirezionale e gerarchico mittente-destinatario, all’interattività diffusa degli scambi. Lavoro e comunicazione possono insomma essere fatti rientrare nella stessa macro-configurazione sociologica della rete: aperta, relazionale, collaborativa.

In questo contesto la diffusione dei social network è largamente considerata dalle organizzazioni come importante opportunità per conseguire sia i tradizionali obbiettivi reputazionali e di orientamento dell’opinione collettiva, sia per una nuova e più efficiente comunicazione con la base.

Vale la pena osservare però che i nuovi strumenti non cancellano né sostituiscono in toto le funzioni dei media precedenti, ma innovano piuttosto le dinamiche di interazione tra i diversi mezzi. Il dibattito pubblico mediatico rimane “il riferimento normativo centrale della teoria della democrazia” (Grossi 2002: 54), anche nell’epoca del dibattito diffuso. Ciò soprattutto in un paese come il nostro, caratterizzato da una agenda informativa monopolizzata dai temi politici e dove, secondo le rilevazioni Istat, ancora nel 2014 guarda la tv il 91,1% delle popolazione (92,3% nel 2013), con il coinvolgimento soprattutto di giovanissimi e over60 (94%, cfr. Istat 2014).

I frames del cambiamento mancanti nella comunicazione sindacale

I sindacati italiani si inseriscono così in un confronto mediatico dominato dai frames del conflitto partitico, faticando a proporre tematizzazioni alternative e interpretazioni del futuro del lavoro che permetterebbero loro di accreditarsi come guide presso i cittadini. Giovani soprattutto.

Nonostante l’iniziale tentativo messo in campo dal Presidente del Consiglio Renzi di impostare diversamente la battaglia mediatica relativa alla nuova riforma del lavoro, il dibattito ha visto il riaffermarsi di un tradizionale scontro ideologico innestato sul tema dell’articolo 18. Quasi del tutto assenti invece gli elementi tecnici e demografici della trasformazione del lavoro che avrebbero logicamente imposto maggiore attenzione verso le misure più innovative per il sistema di regolazione dei rapporti tra persona, Stato e impresa. Riforma delle politiche attive e passive in primis.

La chiave interpretativa dell’ultima grande campagna sindacale rivela almeno altri due aspetti culturali più profondi. Tutte quelle mutazioni rilevate da Morgan si esprimono interessando prevalentemente gli outsider: giovani in ingresso nel mondo del lavoro o professionisti autonomi estranei agli schemi ancora vigenti del conflitto di fabbrica. Ogni aspetto evidenziato dal libro di Morgan è visto quindi dal sindacato con sospetto, come espressione dell’asimmetria di potere tra capitale e lavoro piuttosto che come nuova forma di alleanza.

Se ci si pone dal punto di vista della costruzione narrativa della realtà, ossia la teoria secondo cui è “attraverso la sua narrativa che una cultura fornisce ai suoi membri modelli di identità e capacità d’azione” (Bruner [1996] 2001: 12), le nuove narrazioni del precariato e della disoccupazione generazionale si innestano ancora sullo stesso fondo interpretativo del novecento industriale e mettono quindi il sindacato di fronte a una sfida identitaria. Una sfida che è alla base della sua sopravvivenza.

Francesco Nespoli | Fonte: ilsole24ore.com

@FranzNespoli 

Bibliografia

Bruner, Jerome (1996), The culture of education, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) and Londonon; trad.it La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano, 2001.

Grossi, Giorgio (2002), L’opinione pubblica, La Terza, Bari.

Istat (2014), Annuario Statistico Italiano, http://www.istat.it/it/archivio/134686

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