13703/2015 – Renzi? Pura comunicazione. Salvini diavolo a due teste. Tsipras è troppo solo. «Nessuno ha le leve del potere», dice lo scrittore Salmon: «Sono figure effimere».
Il suo ultimo libro è finito ‘sul comodino’ del primo ministro Matteo Renzi, incorniciato nelle foto scattate dal portavoce Filippo Sensi dopo una breve fuga in libreria agli inizi di febbraio.
Del suo lettore, però, Christian Salmon non ha un giudizio lusinghiero.
Scrittore francese, studioso radicale con alle spalle lunghi anni di ricerca su censura e ruolo degli intellettuali, Salmon ha raggiunto la fama internazionale nel 2007 spiegando per primo come funziona lo storytelling, cioè l’arte di inventare un racconto coerente per giustificare la propria presenza nello spazio pubblico.
I POLITICI? PERSONAGGI DELL’IMMAGINARIO. Il «nuovo ordine narrativo», come lo definisce l’autore, permea tutti i settori sotto i riflettori: dalla moda allo sport alla politica.
Il mondo mediatico è un grande palcoscenico sul quale una folla di personaggi è in cerca, più che di un autore, di una storia da raccontare.
Il suo ultimo lavoro, La politica nell’era dello storytelling (Fazi) – traduzione del più inquietante titolo francese, La cerimonia cannibale della performance politica (Fayard) – spiega come i politici siano diventati delle «figure effimere», «personaggi del nostro immaginario».
LE LEVE IN MANO A POTERI SENZA VOLTO. Mentre le vere leve della politica sono in mano a «poteri senza volto: i mercati, Bruxelles, le agenzie di rating», dice Salmon, i politici sono schiavi del loro racconto, costretti sempre a rilanciare se stessi e la loro storia in una sovraesposizione mediatica che ne consuma la credibilità.
Così è successo a Silvio Berlusconi, così potrebbe succedere a Matteo Renzi.
STORYTELLING COME PROGRAMMA DI GOVERNO. Il premier italiano secondo lo scrittore «è il sintomo più visibile in Europa di questo scivolamento della politica verso la pura comunicazione».
Renzi, anzi, «va più lontano», osserva Salmon, «ha fatto dello storytelling non solo una tecnica di comunicazione, ma un programma di governo».
DOMANDA. Che strumenti hanno i cittadini per ‘difendersi’ dallo storytelling politico?
RISPOSTA. Credo che non sia necessario dare loro consigli. I cittadini sanno perfettamente di cosa si tratta. Hanno imparato a decodificare le storie che vengono loro raccontate. Fanno finta di crederci e provano anche un certo piacere a seguirle, come se guardassero delle serie tivù come House of Cards.
D. Ne è convinto?
R. La riprova è il discredito che colpisce gli uomini politici, ma anche la parola pubblica, tutta la parola pubblica. È una crisi generale di credibilità che getta il sospetto su tutte le figure pubbliche dell’«enunciazione», tutti gli autori della mediasfera: giornalisti, animatori tivù, sportivi, star, manager, medici, intellettuali. È il paradosso dello storytelling generalizzato.
D. Ce lo spieghi.
R. Mai le storie, pensate per sedurre il pubblico, hanno giocato un ruolo così importante nella comunicazione politica, ma allo stesso tempo mai la credibilità di chi le racconta è stata così debole. La ragione è semplice: come l’inflazione rovina la credibilità di una moneta, così l’inflazione di storie rovina la credibilità del narratore politico.
D. Quindi di fatto la partecipazione mediatica del pubblico mette già in scacco i politici.
R. C’è stato un tempo in cui il sovrano indirizzava i suoi editti e i suoi racconti a un popolo silenzioso e ‘credente’. Oggi con Twitter, Facebook e i social network tutte le figure mediatiche – che siano politici o sportivi, che vengano dalla moda o dalla sottocultura di massa – sono sottomesse a un’impietosa decostruzione. Sul grande mercato dei social network, innumerevoli racconti entrano in competizione, si scambiano e si combattono. Il racconto non è una cibo magico nelle mani dei comunicatori, è una questione di lotta e di riappropriazioni successive.
D. Una volta, almeno sulla carta, erano i media a mettere in crisi le narrazioni politiche, confrontandole con i fatti. Oggi che ruolo hanno?
R. I media hanno abbandonato la funzione giornalistica e le loro missioni originali – l’inchiesta, il reportage, l’analisi politica, l’attualità, l’informazione per abbandonarsi a una funzione di decodifica. Sono i critici teatrali dello spettacolo della politica.
D. Un giudizio assai poco lusinghiero.
R. Gli uomini politici sono diventati dei personaggi del nostro immaginario quotidiano, delle figure effimere delle nostre democrazie mediatiche. Non abbiamo alcuna illusione sulla loro capacità di domare la crisi, quello che chiediamo loro è di incarnare un intreccio capace di tenerci col fiato sospeso.
D. E quanto può durare l’intreccio?
R. Dura finché dura. Berlusconi lo ha interpretato per anni. Beppe Grillo è un performer ‘doppiato’ da un genio del marketing. Renzi gli è succeduto, ma già «l’altro Matteo» gli contende la vittoria.
D. Almeno dal punto di vista narrativo, il racconto di Matteo Renzi è efficace?
R. Matteo Renzi è il sintomo più visibile in Europa di questo scivolamento della politica verso la pura comunicazione. Però Renzi va più lontano: ha fatto dello storytelling non solo una tecnica di comunicazione, ma il suo programma di governo. «La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia», ha dichiarato il 2 giugno 2014 al Festival dell’Economia di Trento. Dopo lo storytelling della campagna, ecco lo storytelling di governo.
D. L’Italia dell’ottimismo contro quella dei gufi?
R. Ormai la credibilità di un uomo politico si misura su due scale di valori: la fiducia dell’opinione pubblica misurata nei sondaggi e la solvibilità del debito fissata dalle agenzie di rating. Come soddisfare le agenzie di rating che determinano il costo del debito senza deludere le aspettative degli elettori che vi affidano il potere?
D. Appunto, come?
R. I governi devono promettere il cambiamento sapendo molto bene che non possono cambiare poi molto a causa dei mercati finanziari, della globalizzazione neoliberale, della costruzione europea. Come fare valere la promessa? Facendo storytelling: si tratta di dire alla gente: «Questo Paese è magnifico, ci sono dei talenti e delle potenzialità immense, ma ci sono dei blocchi, dei chiavistelli. Basta farli saltare per liberare la gioventù, l’energia, l’innovazione, la crescita».
D. Secondo lei dunque questo è un mero racconto?
R. Nel suo celebre articolo sulle lucciole (1975), Pasolini parlava del discredito che colpisce la classe politica italiana in questi termini: «Loro non sospettano per nulla che il potere reale agisca senza di loro e che hanno tra le mani solo un apparecchio inutile». Cosa resta dell’uomo di Stato, nel momento in cui il potere è privato dei suoi mezzi d’agire, s’interrogava Pasolini? Maschere, spettri vestiti di tutto punto. La diagnosi è sempre attuale.
D. Lei descrive una classe politica in qualche modo impotente.
R. Il legame tra il potere d’agire e l’incarnazione del potere si è perduto. Da un lato si hanno dei poteri senza volto: i mercati, le agenzie di rating, Bruxelles, Wall Street. E dall’altra dei volti impotenti. Lo sviluppo dei social network e dei canali di informazione 24 ore su 24 non ha fatto che aggravare questa situazione. Più gli uomini politici sono esposti mediaticamente, più appare la loro impotenza.
D. Ci può fare qualche esempio?
R. Da Clinton a Sarkozy, passando per Blair, Bush e Obama, appare sotto la lente d’ingrandimento dei nuovi media un capo di Stato super esposto, vicino quasi all’osceno, onnipresente fino alla banalizzazione. Tutta la simbologia della sovranità è crollata, l’incarnazione della figura presidenziale ha ceduto il posto all’esibizione della persona del presidente.
D. E questo danneggia gli stessi politici?
R. La scena politica ha acquistato il carattere di una danza macabra nel corso della quale l’uomo politico si spoglia a uno a uno dei suoi poteri, dei suoi attributi, del suo prestigio, della sua ‘maestà’ fino a perdere la sua dignità. Così è stato per Berlusconi, Dominique Strauss Khan, Sarkozy e Hollande.
D. Il problema dei politici a sinistra del primo ministro italiano è che non hanno una narrazione efficace?
R. Il problema secondo me è un altro. In Europa ci sono due tipi di situazioni: nei Paesi dove il crollo del modello sociale è stato brutale come in Grecia, Spagna e Portogallo, gli elettori si girano verso un’alternativa di sinistra a partiti socialisti screditati, come Syriza o Podemos. Mentre nei Paesi in cui questo è stato meno brutale, come la Francia e l’Italia, si mantiene il centrosinistra e il malcontento si riversa verso le forze di estrema destra…
D. A proposito, lei conoscerà Matteo Salvini, il leader della Lega Nord ‘alleato’ con i neofascisti di CasaPound…
R. Matteo Salvini ha mutato la logica della Lega Nord e si è allineato sul racconto di Marine Le Pen. Si tratta di attirare i perdenti della globalizzazione e proporre una strategia di rottura con l’Europa neoliberale designando come capri espiatori gli stranieri e gli assistiti.
D. E cosa pensa della sua narrazione?
R. Che c’è un racconto profondamente mistificatore, un diavolo a due teste che prende a prestito dalla sinistra radicale la critica della globalizzazione neoliberale e della costruzione europea e dalla destra neoliberale la denuncia degli immigrati approfittatori, dei rom, dei truffatori della previdenza statale. In realtà quello che propone questa estrema destra è un modello di gestione autoritaria della crisi.
D. Sull’altro fronte c’è l’Unione europea: Bruxelles ha una narrazione unica? Cosa hanno in comune le narrazioni della Germania, della Francia, della Spagna o dell’Italia?
R. Tutto il campo della politica economica in Europa è stato lasciato al neoliberalismo anglosassone – basta pensare alla deregulation, alle idee sull’intervento dello Stato e alla finanziarizzazione – e all’ordo-liberalismo tedesco che è impero della norma, che vede l’indebitamento come colpa e il rigore budgetario come elemento riparatore.
D. Quindi in realtà ci sono due narrazioni sul campo, entrambe neoliberali?
R. Le contraddizioni che emergono oggi tra il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Unione europea sotto l’influenza tedesca si spiegano attraverso l’opposizione di questi due grandi ‘racconti’. L’egemonia della narrazione ordoliberale tedesca tra le élite burocratiche europee si spiega con la credenza collettiva nella ‘performatività’ delle norme giuridiche contenute nei trattati. È la fede dei contabili del Tesoro, dei giuristi, degli alti funzionari, molto competenti in materia delle leggi che non sono degli economisti.
D. Poi c’è la narrazione di Syriza: cosa ne pensa?
R. Syriza si sforza in un contesto molto difficile di ridare alla politica la sua credibilità e il suo potere di agire contestando questa doppia egemonia neoliberale. Tenta di riconquistare delle leve essenziali della sovranità perduta.
D. Per esempio?
R. La lotta contro l’evasione fiscale, contro la corruzione delle élite finanziarie. Ma cerca anche di ridare alla fetta di popolazione più colpita dai programmi di aggiustamento della Troika un po’ di ossigeno e di protezioni perdute (pensioni, salario minimo, politiche sanitarie). E lo fa senza pretendere di uscire dall’euro, ma proponendo di cambiare il racconto europeo che oppone la formica tedesca alle cicale dei Paesi del ‘Club Med’.
D. Il racconto di Tsipras rischia di fallire o di far fallire quello di Bruxelles?
R. È una sfida colossale e niente fa pensare che un piccolo Paese possa imporre un tale cambiamento tutto da solo. È per questo che solo una vittoria di Podemos in Spagna e la mobilitazione in tutta Europa di forze progressiste permetterebbe a Syriza di essere questo catalizzatore.
D. Lei, però, ha scritto che la decostruzione dell’Europa è cominciata.
R. La vittoria di Syriza ha da subito prodotto un effetto di chiarimento. Ha fatto emergere in primo piano le questioni della democrazia, della sovranità popolare, del potere delle lobby finanziarie e dei mercati, il ruolo di attori come Goldman Sachs, la leadership incongruente della Germania in Europa…
D. Quindi è questo l’inizio della ‘decostruzione’?
R. Syriza ha demistificato il catechismo della Troika e costretto i negoziatori europei a uscire dall’ombra. Fino ad allora, la scena si ripartiva tra due tipi di attori: da un lato il vero potere anonimo, quello di Bruxelles, della Troika, dei mercati, delle multinazionali, delle agenzie di rating; dall’altro i poteri ben visibili, ma impotenti… Rendere visibili le poste in gioco, smascherare gli attori occulti è indispensabile a un riorientamento democratico dell’Europa.
D. C’erano altre possibilità per Tsipras?
R. In risposta al declino del politico le scelte sono ridotte. E non sono cambiate da quando negli Anni 70 l’economista americano Albert Hirschman aveva mostrato che di fronte al declino dei marchi, delle organizzazioni o degli Stati, gli individui hanno a loro disposizione tre scelte possibili quando sono insoddisfatti: exit, voice e loyalty. E cioè l”uscita’ dal sistema o l’astensione, la fedeltà rassegnata, o la presa di parola. Syriza o Podemos incarnano quest’ultimo termine. Che si appella alla democrazia.
Autore: Giovanna Faggionato | Fonte: lettera43.it