Rashōmon e oltre

Rashōmon e oltre

Ascolto i dibattiti post elettorali e penso a Rashōmon, uno dei primi capovalori di Akira Kurosawa. Il film è una metafora della relatività della verità, della sua essenza impalpabile e indefinibile. Un samurai viene assassinato in un bosco e la sua sposa abusata dall’assassino. Ma fu abusata sul serio? Dal processo infatti la verità non emerge… chi dice che fu violenza, chi che fu consenso. E chi uccise il samurai? Il bandito? La moglie? Fu suicidio? Insomma, la morale è che la verità non esiste, ma vi sono solo spicchi di verità, spezzoni… ognuno vede quello che vuole.

E’ questa la sensazione che si prova seguendo la tv e il mondo social. E’ voto politico, ma anche no… Ha vinto il governo? No il governo ha perso, il PD tiene, il PD crolla, grande dato M5S, no M5S irrilevanti, Berlusconi risorto, Berlusconi finito… Proviamo a mettere un po’ d’ordine, puntando il riflettore sul PD e il suo premier-padrone.

1. I voti si pesano o si contano? 

Dal 1995 – cioè dall’indimenticabile “notte delle bandierine” di Emilio Fede – il dato politico è “quante regioni” si governano. Il risultato è stato pareggio: le squadre sono scese in campo sul 5-2 e sono rientrate negli spogliatoi sul 5-2. Il centrosinistra perde una regione importante (Liguria) e guadagna una regione altrettanto importante (Campania).

Ovviamente però ci sono pareggi che stanno stretti e pareggi che stanno larghi. Checché ne dicano oggi gli zelanti araldi del Renzismo Invitto, questo 5-2 non soddisfa più di tanto il premier. È un dato deludente rispetto al 7-0 sognato o al 6-1 pronosticato fino a 48 ore fa. Però è un dato che, col senno del poi, non può neppure essere disprezzato, considerato che fino a notte fonda sembrava probabile un 4-3 ma attorno alle 2 di notte era addirittura possibile un devastante 3-4. Cioè il pareggio è stato riacciuffato dopo aver sfiorato la debacle.

Per quanti invece ritengono che I voti non si contino, ma si pesino, il dato politico da monitorare era quello relativo alle due regioni chiave: Liguria e Campania.

Su questo si è visto tutta la goffaggine della gestione politica di questi mesi. In Liguria la candidata Raffaella Paita è emersa vincitrice di elezioni primarie molto opache, in non pochi luoghi inquinate dalla partecipazione al voto di forze organizzata rappresentative di blocchi di potere del centrodestra; primarie che hanno prodotto l’uscita dal PD di un pezzo da 90 come Sergio Cofferati, addio accolto con ostentata indifferenza e malcelato scherno dal premier e dal suo chiassoso cerchio magico. All’opposto, invece, in Campania è stato candidata una personalità complessa e controversa come Vincenzo De Luca, che notoriamente non era né la prima scelta di Renzi e neppure la seconda. Renzi però lo ha correttamente sostenuto in modo chiaro, ma il pasticcio originale (la presenta impossibilità a governare se eletto) e la pessima gestione della comunicazione politica sugli “Impresentabili” è stata fatale perché – soprattutto per le scomposte reazioni alla compiaciuta conferenza stampa di Rosy Bindi – è passato il messaggio che gli “impresentabili” siano tutti o quasi del PD. Cosa del tutto non vera, ma anche in questo caso l’eccesso di zelo di dirigenti più vivaci che intellettualmente brillanti non ha aiutato.

Il risultato è stata la sconfitta della “candidata del cuore” (la Paita) e la vittoria di quello più tollerato che gradito (De Luca) e lascia aperti molti dubbi sulla capacità del premier di valutare in modo equilibrato e oggettivo equilibri e scenari politici periferici rispetto al suo personale “King’s Landing“.

2. Oltre Rashōmon

500Per andare oltre il mero scenario regionale e ipotizzare possibili conseguenze di medio periodo sulla politica nazionale, il riferimento non è più il capolavoro giovanile di Kurosawa ma un altro gioiello: I misteri dei giardini di Compton House di Peter Greenaway. Ambientato nell’Inghilterra di inizio ‘700, racconta la vicenda di un pittore alla moda incaricato di dipingere 12 disegni da angolature diverse del giardino di una residenza signorile. La sua capacità di cogliere i dettagli porta alla luce una realtà inquietante: il padrone di casa che si crede in viaggio è stato in realtà assassinato e le prove sono sparse qua e là nel giardino. Le prove di un complotto.

Anche noi cerchiamo di osservare i dettagli, unendo i puntini e interpretando i fruscii. E per farlo spazziamo subito il campo da due ritornelli parimenti idioti che impazzano in queste ore: “va tutto bene, il PD ha il vento in poppa, tutti amano il governo, il solo problema è la sinistra scissionista che non ne vuol sapere di sparire e ritirarsi a vita privata” (su questo, dichiarazione di riferimento, il demenziale comunicato della Paita rilasciato nel cuor della notte). Il secondo ritornello idiota – partito dal fronte grillino, per poi contagiare tutte le opposizioni – è “per Renzi è una disfatta, si deve dimettere, è finito, si è chiusa un’era”. Non è affatto vero, la disfatta sarebbe stata il 3-4, come sostenuto prima il 5-2 non è un dato positivo per il governo e per il premier, ma non è così negativo da giustificare una crisi e tanto meno chiacchiere sul “dopo Renzi“. Ciò detto, per capire cosa accadrà nel futuro propongo alcune chiavi di lettura:

  • la geografia del voto

Il PD (ormai parlare di centrosinistra non ha alcun senso) tiene nelle tradizionali regioni rosse (a fatica in Umbria, nell’ambiguità nelle Marche) e al sud. Il dato del nord è traumatico: in Veneto la candidatura Moretti sfiora l’irrilevanza e in Liguria quella della Paita ha rischiato di finire terza. Considerato poi che la Lombardia è saldamente in mano al centrodestra, 3 regioni a nord del Po su 5 (ometto dal calcolo Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta perché sono da sempre un’altra cosa) appare evidente come il fantomatico “Partito della Nazione” esca a pezzi da queste elezioni. Perché il presupposto teorico era l’abbandono di aree a sinistra (Cgil, minoranze ostili) per sfondare a destra, nel ceto moderato e conservatore rimasto privo di rappresentanza per l’entrare in crisi della coalizione berlusconiana. Missione fallita. Il fantomatico “ceto moderato” preferisce l’estremismo xenofobo di Salvini allo storytelling renziano. Il che dice molto sulla natura strutturalmente antisistema della piccola borghesia produttiva dell’area padana.

Il dato del sud è luci e ombre per la il sistema di potere di Matteo Renzi. Sulla “Vittoria di Pirro” campana abbiamo detto, ma anche sulla Puglia va fatta una riflessione. Michele Emiliano vince nettamente incarnando un tipo di leadership antitetica a quella renziana. E infatti i due non si amano, ma al limite si tollerano, ma incarnano mondi totalmente diversi e un approccio alla politica forse inconciliabile.

  • i renziani veri e quelli meno

Matteo Renzi sembra fortissimo, ma in realtà lo è molto meno. Il suo controllo sul partito e sulle istituzioni dipende infatti – in larga misura – dalla fedeltà di una classe politica che lui non ha scelto, se non in minima parte. In periferia i vari Rossi, De Luca, Emiliano, Chiamparino, Zingaretti, ma anche la stessa Debora Serracchiani, hanno una legittimazione politico-elettorale pre Renzi: sono alleati, non sudditi. Quindi sarebbe fondamentale riuscire a capire, analizzando regione per regione i nominativi degli eletti nei consigli regionali, su quante truppe fidate Renzi possa contare, perché c’è una cosa da tenere bene a mente: la gran parte dei suoi sostenitori interni al PD non è un “nativo Renziano” ma – per correttezza verso il partito, per opportunismo o per quieto vivere – lo sono tutti diventati dopo la vittoria delle primarie 2013, spesso con cambi di casacca tanto repentini quanto sospetti. Penso ad esempio – per stare nella mia regione – al neopotentissimo Ettore Rosato, che oggi fa il “Renziano Alpha” ma nel 2012 era il coordinatore dei comitati per Bersani alle primarie. O a Matteo Orfini, scaltro presidente del partito, di rigida fede dalemiana, così come Claudio Burlando, fino a ieri Granduca di Liguria…

Ecco, se Renzi si indebolisce, se inizia a sembrare battibile, quanti esponenti della burokratia democratica avvicinatisi per convenienza rimarranno fedeli? Perché il limite principale di Renzi è l’aver scelto di ricorrere alla forza bruta piuttosto che alla seduzione e al convincimento e quindi il giorno in cui smetterà di apparire il più forte, l’Invitto, il suo trono inizierà a traballare.

  • il cerchio magico

Il terzo limite di Renzi è la corte che lo circonda. Ha scelto di preferire il conformismo adulatorio alla creazione di una leadership collettiva ma la qualità dei contributi ne risente inevitabilmente. Sono convinto che il semplicismo nelle analisi (“vinciamo perché siamo bravi, perdiamo perché gli altri sono cattivi e traditori”), il trionfalismo acritico e il fastidio per i pensieri complessi, per i dubbi, per le sfumature non aiutino un leader a crescere politicamente.

L’eccesso di zelo produce dei mostri. Non possono accusare la sinistra interna di essere ostile gli stessi che hanno compiuto lo sgarbo stupido e gratuito di non invitare dirigenti importanti come Bersani e Cuperlo alla Festa dell’Unità. Non si può dire “Civati se ne vada, tanto non conta nulla”  e poi sostenere che è solo colpa sua se la Liguria è stata persa. Non si può picchiare virtualmente Rosy Bindi per 48 consecutive con migliaia di tweet e non spendere neppure una parola su come in troppe parti d’Italia vengono fatte le liste elettorali… Insomma, c’è un problema di crescita qualitativa della classe dirigente democratica, soprattutto renziana. La fedeltà cieca al verbo non può essere il criterio esclusivo di affermazione politica dentro il partito e dentro le istituzioni.

Le sfide non sono da poco. Nel 2010 in 13 regioni su 15 l’eletto ha ottenuto almeno il 50% dei voti, in presenza di una affluenza superiore al 60% degli aventi diritto. Ieri solo Zaia ha superato (di un soffio, 50,1%) la maggioranza assoluta, ma in un quadro di crollo dell’affluenza generalizzato. La rappresentanza politica si sta polverizzando, manca una alternativa liberaldemocratica al governo del PD, l’elettorato è sempre più distante dal voto e non è più tempo di giocare con le chiacchiere o i pensierini su Twitter.

Per citare lo slogan della prima campagna di Tony Blair – un politico al quale Matteo Renzi si ispira – “Britain deserves better“. La Gran Bretagna merita di meglio. Vale anche per l’Italia. Anche il nostro Paese merita di meglio.

Marco Cucchini | Poli@rchia (c)

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