Il 15 giugno 1215 nel prato di Runnymede, sulle sponde del Tamigi e nel cuore del Surrey, re Giovanni I d’Inghilterra firmò la Magna Carta Libertatum. La firma non fu una iniziativa del sovrano ma, all’opposto, fu conseguenza di uno scontro tra la corona e i baroni del regno, che solo per la saggezza di pochi – tra i quali l’arcivescovo di Canterbury Stephen Langton – non sfociò in guerra civile aperta.
Non si può comprendere l’importanza di quella firma se non si ritorna indietro alle origini del dominio normanno d’Inghilterra. Quando, verso la fine del IX secolo, il re del WessexAlfredo si autoproclamò King of the Angles and Saxons, e l’eptarchia di regni che per quattro secoli si erano confrontati sul suolo inglese venne ricondotta ad unità per la prima volta dalla fine del dominio romano sull’isola. Ma alla morte di Alfredo non seguì un rafforzamento nel regno, bensì – al contrario – ebbe inizio una fase di turbolenza interna che rese “That royal throne of kings, that sceptered isle” (per parafrasare Riccardo II) l’oggetto delle mire espansionistiche dei popoli scandinavi. Fu però Guglielmo duca di Normandia a prevalere: nel 1066 riuscì a invadere l’isola e a piegare la resistenza del legittimo re Harold, che morì nella battaglia di Hastings e in breve a sottomettere l’intero regno, perdendo così il vecchio e sgradevole di nickname di “Bastardo” sostituito con quello più rispettabile di “Conquistatore”.
Tutta questa premessa per sottolineare un punto fondamentale: un trono usurpato con la forza faceva fatica a sostenere il proprio sovrano solo in virtù della visione teocratica e provvidenziale della sovranità, del regno governato “per Grazia di Dio”. Ben cosciente di questo fatto, re Guglielmo cercò da subito di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di consolidamento del potere regio e le spinte centrifughe dei signori feudali e la strada fu quella dell’affermare attraverso l’operato delle corti regie la “Common Law of England”, capace di imporre un minimo di uniformità giuridica sul particolarismo del regno.
la natura del potere dei re d’Inghilterra successivi alla conquista normanna fu quindi, da subito, di tipo feudale e pattizio. Il re come “primo tra pari” e non come padrone indiscusso del regno. Certo, ci furono dei tentativi di riequilibrare la bilancia del potere in favore della Corona, ad esempio durante il regno di Enrico II Plantageneto. Salito al trono nel 1154, alla fine del ventennio di turbolenze e guerre civili noto come Anarchia, cercò di costruire su nuove basi il potere regio. I suoi consiglieri importarono i principi del Diritto Romano e – tra tutti – uno era probabilmente il preferito di Enrico: “Quod principi placuit, legis habet vigorem” che potrei tradurre semplicemente con “ciò che piace al principe ha forza di legge”. E sulla base di questa impostazione, cercò di imporre la “pace del Re” a una popolazione grata per il ritorno dell’ordine dopo tanti anni di caos e soprusi. L’esperimento però non funzionò. A seguito delle contestatissime “Costituzioni di Clarendon” che estendevano il potere giudiziario delle corti regie anche in ambiti precedentemente di competenza ecclesiastica si aprì un conflitto pesantissimo con la Chiesa e con l’arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket, terminato con l’assassinio dell’alto prelato ad opera di sicari “ispirati” dal re (1170), che uscì irreparabilmente indebolito dallo scandalo.
Il successore – Riccardo I – trascurò di dedicarsi all’ordinato governo del regno, preferendo le avventure in Terra Santa come crociato o i pomeriggi passati a suonare il Liuto e comporre poesie nei suoi possedimenti francesi, tanto più dolci e civilizzati di quanto non fosse la violenta Inghilterra e suo fratello Giovanni “Senzaterra” si trovò a ereditare un trono in cui il potere centrale del re era irrimediabilmente compromesso. I tentativi di rafforzamento del potere centrale fallirono. La visione teocratica e “provvidenziale” del re che Giovanni avrebbe voluto incarnare si scontrava con la consuetudine pattizia di stampo feudale. Il re non poteva ormai che essere parte di un negozio giuridico tra soggetti paritari, di un “foedus” (patto) che traeva la propria legittimità dall’essere parte integrante della lex terrae, che riassumeva l’intero sviluppo consuetudinario del diritto feudale in base al quale re e baroni erano costretti a convivere fianco a fianco.
Il rifiuto di accettare questo equilibrio di poteri e il fallimento dell’opzione “assolutistica” portarono alla firma della Magna Carta. Che non fu – e questo è tipico della costruzione giuridica del Common Law – un progetto normativo creato ex novo, bensì una formalizzazione scritta e solenne di pratiche, consuetudini e istituti già presenti nell’ordinamento giuridico inglese. Potremmo dire che la Magna Carta non inventò (quasi) nulla, ma smascherò tutto. Obbligare il re alla firma fu un punto di non ritorno che vincolò non solo il riottoso Giovanni ma anche tutti i suoi successori.
Alcuni di questi tentarono ancora di esautorare i baroni e riconquistare la centralità perduta (o mai avuta)… ma furono tentativi spesso velleitari, altre volte incompleti o condotti con scarsa convinzione e rigore. Talvolta si è parlato di “governo assoluto” con riferimento – ad esempio – alla dinastia Tudor e in particolare al regno di Enrico VIII. Ma – per citare la voce autorevole di George M. Trevelyan – “la nota dominante [del governo Tudor n.d.a.] era stata il culto del sovrano, non il dispotismo. Monarchi senza esercito al centro e senza burocrazia retribuita in provincia, non si potevano definire despoti poiché non erano in grado di costringere con la forza i propri sudditi“.
Dirlo meglio sarebbe impossibile. Despoti talvolta, padroni assoluti mai. E i tentativi in questo senso furono stroncati con le rivolte, con il regicidio (Carlo I) o con un cambio di dinastia (Giacomo II, cacciato nel 1688, ai tempi della Glorious Revolution). E – a ben vedere – la fine traumatica del Secolo Breve degli Stuart – traeva legittimità dalla firma del 15 giugno 1215, considerato che il capitolo 61 della Carta prevedeva la possibilità di detronizzare un re non fedele ai principi della Carta stessa, se una commissione di 25 baroni avesse ritenuto che gli atti del sovrano fossero in violazione della Pace del Regno.
Insomma, la Magna Carta Libertatum non è un documento da poco. Limitava il potere regio, si impegnava a riconoscere una serie di diritti ai propri vassalli e sudditi, alcuni riferiti al principio di habeas corpus, mentre altri collegati con l’autonomia della Chiesa e con il principio di condivisione delle politiche fiscali, dal momento che l’imposizione di nuove imposte e l’aggravio delle esistenti avrebbe dovuto essere confermato dal voto (a maggioranza) di un “Commune Consilium Regni” formato da nobili, vescovi e abati (cioè, i signori feudali). Nel 1295 a questo Consilium Regni – embrione della successiva House of Lords – si affiancarono 2 cavalieri indicati da ogni contea e 2 uomini liberi per ogni distretto (Royal Borough). Era il “Model Parliament” di Edoardo I Plantageneto, costruito ispirandosi al precendente “Parlamento di De Montfort” del 1265. A partire dal XIV secolo si affermò l’abitudine che i membri del vecchio “Commune Consilium Regni” (cioè i signori feudali) e gli uomini liberi borghesi (cioè i non nobili, i “comuni”) si riunissero separatamente (tranne che in presenza del Re) e quindi in questo possiamo individuare l’origine della House of Commons. La “Camera dei Comuni” eletta in base a principi di rappresentanza territoriale e certo non politica o partitica, visto che – nel Medioevo – i partiti strutturati non esistevano ancora.
La capacità di evolversi, di cambiare, di risolvere i conflitti con lo strumento del diritto e non solo con quello della violenza ha consentito alla monarchia britannica di sopravvivere e, anche se non si è realizzata la profezia formulata dal re d’Egitto nel 1948 – “Presto resteranno solo cinque re: il Re d’Inghilterra, il re di picche, il re di fiori, il re di cuori e il re di quadri – è indubbio che il trono di San Giacomo sia oggi il più solido e prestigioso tra quelli rimasti. E anche ai baroni in fondo non è andata male. Nel paese che per primo ha conosciuto la Rivoluzione Industriale, infatti, la classe egemone è rimasta quella patrizia basata sul latifondismo fino al 1911. Ci volle il governo liberale di Lloyd George per approvare una riforma agraria che produsse la più grande redistribuzione della terra nella storia britannica, dopo quella seguita alla conquista normanna (1066) e alla dissoluzione dei monasteri voluta da Enrico VIII (1536-1540).
Ma questa sarebbe un’altra storia da raccontare. Ma per oggi, i miei pochi lettori hanno sofferto abbastanza…
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)