Pronto lo schema di decreto legislativo che definisce i nuovi collegi elettorali previsti dall’Italicum. Non si tratta solo di un problema tecnico perché il ridisegno dei collegi è una pratica spesso utilizzata per rafforzare o indebolire alcuni gruppi elettorali. Come insegnano gli Stati Uniti.
I nuovi collegi plurinominali
In questi giorni il governo ha redatto lo schema di decreto legislativo che contiene i nuovi collegi elettorali plurinominali previsti dalla legge 52/2015 (cosiddetto “Italicum”), che dal 1 luglio 2016 sarà la nuova legge per l’elezione della Camera dei deputati. Si tratta, almeno in apparenza, di un’operazione che potremmo definire tecnica, tanto è vero che il grosso del lavoro di composizione dei collegi è stato svolto da una specifica commissione (tecnica, appunto). Ora il governo ha qualche settimana per accettare la proposta della commissione oppure per approvarne una diversa.
Vediamo le novità introdotte e quali insidie e problemi possono nascondersi dietro tale scelta.
I nuovi cento collegi plurinominali sono suddivisi tra diciotto regioni. Il Trentino Alto Adige è invece diviso in otto collegi uninominali e la Val d’Aosta è costituita da un solo collegio uninominale. La regione con il numero maggiore di collegi è la Lombardia (diciassette), quelle con il numero inferiore l’Umbria, il Molise e la Basilicata (uno). L’elenco completo dei collegi, con informazioni sulla loro composizione, è allegato allo schema di Dlgs.
La composizione dei collegi ha seguito alcuni criteri, stabiliti dalla stessa legge 52/2015 all’art. 4, che possono essere suddivisi in due gruppi così sinteticamente riassumibili: criteri obbligatori – omogeneità quantitativa della popolazione, omogeneità economico-sociale e storico-culturale, continuità territoriale, difesa delle minoranza linguistiche; e criteri consigliati – utilizzo dei confini determinati dai territori provinciali o dai collegi uninominali della legge elettorale 536/1993, il cosiddetto “Mattarellum”. Una apposita commissione, nominata con decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 5 giugno 2015, presieduta dal presidente dell’Istat e composta da dieci esperti, ha formulato una proposta, correlata da una corposa relazione, entro i termini stabiliti dalla legge stessa.
Il pericolo delle salamandre
Perché tutto ciò può essere interessante dal punto di vista elettorale? Perché il (ri)disegno dei collegi elettorali è una pratica spesso utilizzata per rafforzare o indebolire alcuni gruppi elettorali. Per esempio, un gruppo può essere rinforzato aumentandone la densità all’interno di un collegio; al contrario, può essere indebolito disperdendo i suoi elettori in una molteplicità di collegi.
Negli Stati Uniti, dove il loro ridisegno è una attività assai frequente in alcuni Stati, i collegi elettorali (uninominali) possono assumere le forme più strane; tanto è vero che questo tipo di attività viene indicata con la parola “gerrymandering” – traducibile come “la salamandrizzazione di Gerry” – dalla forma assai curiosa di un collegio elettorale ridisegnato dal governatore del Massachusetts, Elbridge Gerry, nel 1812.
I criteri stabiliti dalla legge 52/2015 hanno innanzitutto il chiaro intendo di difendere le minoranze linguistiche, che vengono “impacchettate” nel minor numero di collegi possibili (la minoranza slovena in Friuli Venezia Giulia addirittura in un solo collegio), così da vedersi attribuito maggior potere elettorale. Inoltre, viene richiesta l’omogeneità della popolazione e delle sue caratteristiche, il che però potrebbe creare problemi se le caratteristiche scelte nel concreto fossero strettamente collegate alle preferenze politiche degli elettori.
A monte di questo eventuale problema (comunque tutto da verificare), c’è la scelta di che cosa si debba intendere per “omogeneità delle caratteristiche”. La commissione ha individuato una serie di indicatori per misurare l’omogeneità territoriale dei collegi (la prossimità relativa), quella economico-sociale (densità demografica, indice di vecchiaia, numero di stranieri per mille residenti, tasso di occupazione, differenza tra il tasso di occupazione maschile e femminile; tasso di abbandono scolastico, indice di possesso di titoli universitari e di titoli terziari non universitari, addetti delle unità locali dell’industria e dei servizi per mille residenti, percentuale di occupati nel settore dell’industria sul totale dell’industria, percentuale di occupati nel settore dei servizi evoluti sul totale dei servizi) e quella storico-culturale (grado di radicamento territoriale). Ogni indicatore è ovviamente scelto in maniera discrezionale, anche se la scelta appare nel complesso ragionevole. La commissione ha inoltre svolto un’analisi di robustezza sugli indicatori per rinforzare i propri risultati. Tuttavia, la necessità di utilizzare i confini delle province (e, in maniera meno esplicita ma ancora più vincolante) delle regioni, pone un evidente limite al criterio dell’omogeneità: non è infatti da escludere che territori omogenei siano posti a cavallo di linee di confine.
Il lavoro della commissione sembra avere rispettato le indicazioni previste nell’art. 4. Il vero banco di prova sarà dunque vedere se e come il governo vorrà mettere mano alla proposta della commissione. Nell’ipotesi di correzioni, torneremo sicuramente sull’argomento per cercare di capire se si tratterà di “Renzi-mandering”.
Autore: Paolo Balduzzi | Fonte: lavoce.info