Tutti pazzi per Twitter, anche ai massimi vertici dell’Unione europea. Sempre più spesso scopriamo capi di stato e di governo twittare come forsennati prima, durante e dopo le riunioni fiume a Bruxelles. Non c’è solo il frenetico presidente del consiglio italiano Matteo Renzi (classe 1975). Uno dei leader più assidui nell’alimentare il crescente circuito dei follower, è il finlandese Alexander Stubb(liberalconservatore nato nel 1968), tallonato dal maltese Joseph Muscat (laburista nato nel 1974) e dal belga Charles Michel (liberale, stessa età di Renzi).
Fin qui nulla di trascendentale. La novità è che da strumento per la diffusione immediata di un messaggio sintetico che informa sull’inizio o sulla fine di un vertice, il tweet sembra diventato un elemento del processo politico stesso, capace di scatenare un meccanismo di retroazione che può avere un peso diretto nella discussione.
L’autogol di Donald Tusk
Nel linguaggio scientifico, la retroazione (feedback in inglese) indica l’effetto prodotto dall’azione di un sistema che si riflette sul sistema stesso per modificarne o correggerne il funzionamento. Trasferito al procedimento di formazione di una decisione politica, in un luogo affollato come la riunione di 29 capi di stato e di governo, un tweet messo in circolazione al momento giusto è potenzialmente in grado di condizionare un negoziato e incidere anche sul risultato finale.
Qualcosa di simile è avvenuto un mese fa: a poche ore dall’inizio del vertice a Bruxelles sulle quote di profughi da ripartire tra i diversi stati europei, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk aveva twittato : “Non c’è accordo sull’immigrazione”. Non era un invito implicito a trovarlo, quanto la constatazione dell’impossibilità di trovarlo. Un autogol per uno che ha come compito primario di tentare l’impossibile. Proprio Tusk, ex primo ministro polacco, è stato poi accusato di non aver lavorato per un accordo più coraggioso di quello siglato alla fine.
In quel vertice, il premier ungherese Viktor Orbán, non proprio un paladino delle libertà civili e dell’informazione, aveva apostrofato i colleghi twittatori invitandoli a evitare fughe di notizie e chiedendo di tenere sotto controllo i telefoni cellulari. Sul tavolo una proposta: predisporre un sistema per bloccare tutti i segnali dal salone delle riunioni europee.
Ne ha avuto buon gioco Renzi che, con uno scatto “grillino”, ha ribattuto: “Se qualcuno dice che deve rimanere la segretezza degli atti, allora la mia controproposta è tenere i vertici in streaming, questo eviterebbe discussioni fasulle e capziose”. L’incidente si è chiuso così. Meglio un paio di tweet che le telecamere accese.
Un altro caso di uso “politico” di Twitter si è verificato nel corso di una delle ultime riunioni dei ministri finanziari dell’eurozona sulla Grecia. Sotto l’hashtag #itsacoup, il ministro delle finanze slovacche Peter Kažimír ha twittato: l’accordo raggiunto con la Grecia è “duro per Atene perché è il risultato della loro primavera greca” (con un riferimento alla primavera di Praga del 1968 quando i carri armati sovietici invasero quella che allora era la Cecoslovacchia).
Il volto social del Consiglio europeo
Più tardi Kažimír, un “falco” nella trattativa con la Grecia addirittura più duro del collega tedesco Wolfgang Schäuble, ha cancellato il tweet. Il giorno dopo ne ha inviato un altro per chiarire: “Nelle situazioni tese, alcuni tweet possono scatenare collera”, seguito da: “La nostra intenzione (è) essere schietti sulla prospettiva, non insultare o offendere”.
Che tutto questo twittare possa avere un rilievo politico l’ha spiegato lo stesso Kažimír in un’intervista: Twitter aiuta, “mostra che siamo qui e che lavoriamo molto, non ci sono solo i grandi paesi, i tedeschi, i francesi…”. Twitter restituirebbe così una dimensione social a un organismo politico (il Consiglio europeo) che non lo è, e che anzi è l’opposto, date le sue tortuosità e la sua segretezza.
C’è chi pensa che ormai siano abbastanza i segnali di avvio di una fase nuova in cui comunicazione e processo politico s’intrecciano sempre più strettamente. Twitter sta trasformando i giornalisti in cercatori e controllori di tweet, e sta diventando uno strumento che i politici non usano solo per mostrare i lati buoni delle loro azioni quotidiane.
Con settori sempre più estesi di opinioni pubbliche euroscettiche, i 140 caratteri potrebbero costituire una risorsa per mantenere la connessione con il discorso europeo. A una condizione: che non servano unicamente per far vedere che a Bruxelles si è capaci di “battere i pugni sul tavolo”. In questo caso l’informazione sconfina facilmente nella propaganda (come perlopiù avviene oggi).
Non bisogna farsi illusioni, però: il metodo Twitter potrà essere usato di volta in volta da qualcuno per uscire da una condizione di marginalità, per reagire alla prassi del minidirettorio e delle riunioni ristrette tra pochi eletti (tutta la fase finale del negoziato sulla Grecia è stato condotto da tre persone: Angela Merkel, François Hollande e Alexis Tsipras). Ma di certo non produrrà grandi stravolgimenti
Twitter risulta utilissimo per attirare su di sé l’attenzione degli altri media in un circuito che continua ad autoalimentarsi. Ma finora non risulta che sia stato usato durante una riunione politica per far pesare sul tavolo delle trattative le reazioni dell’opinione pubblica. A Bruxelles si lavora ancora sconnessi dalle “piazze”.
E quando l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis ha reso noto di aver registrato un’intera riunione dell’eurogruppo (l’organismo di cui fanno parte i ministri finanziari della zona euro) tutti hanno gridato allo scandalo. Già la fiducia nei dirigenti greci era al minimo. La mossa di Varoufakis è stata considerata un atto di pirateria politica.