La vacanza è un manifesto

La vacanza è un manifesto

Agosto, popolo mio quanto ti conosco. Carrellare le abitudini dei potenti italiani dal dopoguerra ad oggi significa fotografare non la misura del nostro benessere, e nemmeno la caratura culturale della classe dirigente, ma accendere un faro sul rapporto – sempre complesso – tra politici e cittadini. In ogni civiltà lo spazio è anche simbolo, e se i palazzi del Potere lo sono in inverno, gli habitat del riposo lo diventano in estate. Seguirne qualche traccia significa allora anche disvelare contraddizioni, sintonie e perfino strategie del rapporto tra la punta e la base di una piramide che sempre di più si vuole vendere (o spacciare) per rovesciata.

Il dopoguerra delle passeggiate in montagna e dei calzettoni al polpaccio è lontano, perso in una memoria bianconera precedente alla Fiat Seicento e al turismo di massa. Per la gente comune la “vacanza” del politico è un titolo nelle pagine interne di quotidiani dalla grafica vintage. Un’astrazione, un non-luogo come un non-abito era la grisalglia cattocomunista. Dovranno passare ancora anni, e non pochi, prima che uno scatto diventi evocazione di “esotismo” all’italiana. Paradosso vuole che sia lo fotografia di un leader comunista, il più amato e il più austero nell’immaginario collettivo. Così Enrico Berlinguer che veleggia a Stintino è anche il ritratto di un Paese (e di un popolo) che riesce ancora distinguere la sostanza dalla sua rappresentazione, e quanta differenza con il Massimo D’Alema che un paio di decenni dopo capitana l’Ikarus sulle onde sempre tempestose del centrosinistra. In vent’anni tutto è cambiato. L’immagine pubblica ora riempie di sé la sostanza, la inquina e la deforma. Tra estate e inverno, così come tra governati e governati, i confini cominciano a farsi liquidi.

In mezzo, c’è stato il craxismo, i nani e le ballerine da bere, e con loro l’esordio di una politica che non nasconde il suo lato edonistico privato ma piuttosto lo evoca e lo usa per sedurre e ammaliare. E’ il “nuovo” che inizia, attraverso cesura e non continuità, una rivoluzione che non rivolge davvero ma inverte i suoi segni. Tanto, la rivoluzione vera sta per arrivare. La naturale dependance delle spezie di Hammamet si chiama, a seconda delle stagioni, Villa Certosa, Bermuda o Portofino. Con cui salta fragorosamente in aria l’idea stessa di pudore nella sua accezione di lontananza, prudenza e riservatezza. Il berlusconismo è una svolta, tanto sfrontata quanto coerente con la fine della prima Repubblica e l’inizio della Seconda. Eppure, anche qui è il paradosso che regola il cambiamento di percezione collettiva tra alto e basso, potere e popolo.

Un’Italia che tra difficoltà reali e vittimismo paraculo assaggia crisi, disoccupazione, paura del futuro, si ritrova invischiata in un processo di mimesi con un miliardario in bandana che danza su vulcani da giardino. Ed estate dopo estate dai lettini a schiera degli stabilimenti popolari l’italiano medio non si incazza, ma lo vota. Anzi, forse lo vota per non incazzarsi. E se oggi Beppe Grillo, ricco signore fattosi leader grazie al pauperismo e alla polemica anti-casta può rilasciare le sue interviste dai golf club della Costa Smeralda o da una barca con bandiera della Cayman, lo deve alla giravolta apparentemente non-sense dell’ex Cavaliere, presidente operaio con accesso privato al mare.

Il contraltare in canottiera di ieri, Umberto Bossi, è quello di oggi a torso nudo (Matteo Salvini), che sui gozzi padani rema nel mare che vorrebbe libero dai disperati della terra. Da allora, e sempre di più, la vacanza è manifesto elettorale, segnale sottotraccia, gioco di potere. Che l’esplosione dei social network asseconda e rilancia, e a volte direttamente crea. Noi siamo voi e noi non siamo voi. L’ambiguità populista non soffre il caldo e i selfie, ci mancherebbe altro, non vanno mai in vacanza.

Autore: Marco Bracconi | Fonte: repubblica.it

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