Lapidario e banale il portavoce del partito popolare al governo a Madrid, Pablo Casado, ha colto nel segno alla fine dello scrutinio per le regionali in Catalogna: “Dov’è il problema? Gli elettori catalani in maggioranza hanno votato contro l’indipendenza”. La gioiosa macchina da guerra del governatore separatista Artur Mas – che comprende dalla lista unica “Junts pel Sì”, dove convivono il centro destra (Cdc) e la sinistra (Esquerra republicana), fino agli anticapitalisti della Cup – ha da ieri sera i seggi (72 su 135) nel consiglio regionale di Barcellona per avviare il processo che entro i prossimi 18 mesi dovrebbe, nelle intenzioni dei suoi promotori, portare alla nascita di un nuovo Stato repubblicano in Europa. Ma non i voti, che sono il 47,8 per il largo, e decisamente eterogeneo, fronte secessionista, e il 52,2% per tutti gli altri.
La soglia magica del 50% non c’è, e nonostante Artur Mas abbia confermato in nottata la volontà indipendentista, non sarà facile imporre l’avventurosa scelta della separazione a più della metà della Catalogna che non la vuole. “Sconfitta e vittoria” si intitola l’editoriale di “El Pais” che sottolinea come per i nazionalisti le elezioni regionali di ieri siano allo stesso tempo un successo elettorale e un fallimento plebiscitario. Alla fine della sbornia demagogica di queste ultime settimane non è affatto certo che Artur Mas, leader di un partito di destra, storicamente conservatore e moderato, giunga a più miti consigli mentre l’onda che ha messo in moto, con la trasformazione di un’elezione regionale in un referendum secessionista, rischia in realtà di travolgerlo. “Ciao Spagna”, ha twittato ieri sera Antonio Baños, capo della Cup, coalizione a pugno chiuso dei puri e duri anti-tutto, che è diventato, ottenendo l’8,2 dei voti (aveva il 3,5 nel 2012) e dieci seggi, imprescindibile per la maggioranza assoluta al consiglio regionale. E che chiede a Mas come primo atto del governo, insieme a “Junts pel Sì”, la proclamazione della repubblica catalana.
Su posizioni altrettanto radicali sta pure Oriol Junqueras, leader di Esquerra republicana e socio di coalizione di Artur Mas. Così quello che cinque anni fa, quando Mas divenne per la prima volta governatore catalano, sembrava una fuga in avanti orchestrata per ottenere solo nuovi spazi d’autonomia dalla Spagna – nella sostanza il federalismo fiscale – potrebbe diventare un’alluvione dagli esiti piuttosto incerti anche per la leadership dell’alfiere catalano. Economista, 59 anni, divenuto delfino prima e erede poi di Jordi Pujol, il padre-padrone del nazionalismo catalano e per 23 anni consecutivi (1980-2003) governatore regionale, Artur Mas si guadagnò l’investitura soprattutto per la sua fedeltà assoluta al capo e, si disse, per la sua figura “così kennedyana”. Tre figli, educato nei migliori collegi di Barcellona, gran tifoso del Barça di Messi, amante della letteratura francese (il suo libro preferito è “Il piccolo principe” di Saint Exupéry), molto sportivo (scia, gioca a tennis e, quando può, guida una barca a vela), era considerato, prima di lanciarsi in questa sfida al centralismo spagnolo, “un candidato robot”, un po’ prepotente e un po’ troppo presuntuoso, ma sostanzialmente un tecnocrate “rigido, anche insicuro e un po’ anonimo”.
A differenza di Jordi Pujol, che perfino quando nei suoi anni migliori ottenne il 60% dei suffragi, frenava gli estremisti sbuffando: “Abbiate pazienza, prima o poi saremo indipendenti”, Artur Mas ha preferito lo scontro a viso aperto agli stop and go, conditi di minacce e ricatti, con i quali il suo predecessore aveva costruito una diplomazia sottile, e in molti casi vincente, con gli avversari di Madrid. Ora ogni sua mossa sarà terribilmente più difficile perché Artur Mas è diventato un governatore zoppo che ha vinto le elezioni ma ha perso, seppur d’un soffio, il plebiscito.
Fonte: repubblica.it | Autore: Omero Ciai