Se sei un capo di Stato la pallottola fa parte del gioco, è una delle controindicazioni ad una vita di privilegi e di potere. Così come se corri in Formula 1 il botto ci può scappare o se fai l’alpinista il rischio del volo nel vuoto è sempre dietro l’angolo. Ma se vuoi condurre una vita normale non dovresti mai essere in pericolo. Nessuno può voler far del male a una persona comune, che conduce una vita comune.
Eppure non è così. Da quando sono al mondo qualcuno cerca di uccidermi, senza neppure sapere che esisto, come mi chiamo, cosa faccio per vivere o a cosa penso la notte prima di addormentarmi. Non ho nessuna colpa, tranne quella di uscire di casa e cercare di vivere.
Quando ero piccino piccino erano i fascisti, o almeno questo è quanto si ipotizza, ma chi lo sa… Iniziarono a mettere bombe in una banca per ammazzare un po’ di persone comuni e continuarono per una quindicina d’anni. Ovviamente all’inizio io non sapevo nulla di quanto accadesse, perché il 12 dicembre 1969 avevo 2 anni o poco più… troppo pochi per capire qualcosa che andasse oltre al trittico magico “pappa-nanna-cacca”. Però ricordo bene – ad esempio – piazza della Loggia: avevo 7 anni e i telegiornali li ho ancora chiari in mente. E poi vennero le bombe sui treni o alla stazione di Bologna, un mese e mezzo dopo il mio 13esimo compleanno.
La mattanza continuò per tutta l’adolescenza: gente comune moriva andando in banca, prendendo un treno o – per chiudere provvisoriamente la lista – facendo la fila al check-inper andare in ferie. Come a Fiumicino nel 1985: 13 persone uccise a colpi di kalashinikovperché colpevoli dell’imperdonabile crimine di voler andare a visitare Gerusalemme. Avevo da poco compiuto 18 anni, quella era – se ho calcolato bene – la 7° strage casuale e irrazionale accaduta sul territorio italiano dal giorno della mia nascita…
I fascisti (o chi per loro) si calmarono e per un pugno di anni la situazione appariva calma, ma quando avevo 25 anni le cose cambiarono. Iniziò la mafia a far scoppiare bombe a casaccio.
Mi sarebbe tanto piaciuto andare a studiare a Firenze, ma scelsi Trieste e questo – chissà – forse mi ha salvato la vita, perché nel 1992 avrei potuto essere al posto di Dario Capolicchio, studente ventiduenne vittima dell’attentato in via dei Georgofili. Cosa stava facendo Dario? Nulla, era seduto in casa propria, un appartamento di studenti vicino agli Uffizi, stava studiando per un esame imminente aiutato dalla sua ragazza che – per fortuna – si è salvata. La mafia (o chi per lei) aveva deciso che bisognava uccidere lo studioso Dario, le piccole Nadia (9 anni) e Caterina (2 mesi) più qualcun altro, oltre naturalmente a qualche decina di feriti. Perché? Non si sa.
Il processo di unificazione europea e l’abbattimento dei costi di viaggio ha cambiato la nostra percezione dello spazio e dei confini. Quando avevo 18 anni non era pensabile prendere un volo con poche lire per andare a Londra o Parigi ma ora si. Pertanto, la vita globalizzata ha portato con se anche una percezione globale dei rischi e del terrore. E quindi ho sentito l’11 settembre 2001 come un attacco anche a me, non più giovane ma giovanile 34enne. Vivevo a Pontassieve allora. Passai la giornata attonito davanti alla televisione e poi verso sera mi recai a Firenze per distrarmi… ricordo la fila di turisti americani in pantaloncini corti e macchina fotografica al collo in attesa di entrare in consolato per avere informazioni. Erano tutti zitti, con la testa bassa. Una scena spettrale. Era iniziato l’incubo del fanatismo islamico.
Mentre mi avvicinavo ai 40 anni ci furono le bombe di Madrid (2004) e Londra (2005). Ancora orchi ossessionati dal Corano e da Allah ma non per questo dimentico lo choc provato a 44 anni, nel 2011, davanti alla mattanza di adolescenti norvegesi scatenata dalla follia neonazista di un folle solitario a Utoya. Erano giovani iscritti al partito socialdemocratico. Avevamo le stesse idee. Speravamo nelle stesse cose. Io sono vivo, loro no.
Oggi che mi avvicino ai 50 anni guardo attonito Parigi – la città che più amo al mondo (dopo Udine) – immersa nel sangue. Sangue di chi era andato a vedere una partita di calcio, a sentire un concerto o a cenare cambogiano “così, per cambiare…” Anche io sono andato a vedere partite di calcio. Anche io ho sentito concerti e anche se non ho mangiato mai cambogiano, ho comunque mangiato giapponese, cinese o indiano. E sono vivo. Altri 150 invece oggi hanno perso la vita per fare esattamente le cose che io faccio da sempre.
Da bambino e da adolescente erano i fascisti. Da ventenne fu la mafia. Da trentenne furono gli estremisti islamici. Da quarantenne il neonazista e poi? chi sarà il prossimo? quale setta di pazzi o di criminali cercherà di uccidermi a 50 o 60 anni? Uccidermi mentre vado a fare la spesa al Carrefour. Mentre vado al Visionario a vedere l’ultimo film di 007. Mentre mi trovo con gli amici di sempre in pizzeria. Mentre faccio lezione in un’aula universitaria. Mentre assisto a un comizio. Insomma, mentre vivo.
Perché è questo che hanno in comune tutti loro – fascisti, mafiosi, islamisti, nazisti. Odiano che viviamo le nostre vite da donne e uomini liberi. Odiano che diciamo quello che pensiamo, che amiamo chi vogliamo, che ci vestiamo come ci piace, che usciamo la sera senza paura e ogni giorno ci accalchiamo sui treni, sugli autobus e sulle metropolitane, anche se il giorno prima da qualche parte qualcuno ha ammazzato un po’ di persone che stavano facendo esattamente le stesse cose.
Non so se siamo in guerra e se – nel caso – si possa vincere. Ma so cosa dobbiamo fare: niente. Continuare come sempre. Andare alle partite. Andare ai concerti. Andare al ristorante. Dire quello che pensiamo. Baciarci in pubblico. Difendere il diritto delle nostre donne di mettersi una gonna corta anche se a qualcuno da fastidio. Votare chi vogliamo.
E – ogni tanto – ricordarsi delle centinaia di persone che sono morte per aver vissuto la nostra stessa vita.
Autore: Marco Cucchini (C) Poli@rchia