La calce viva gettata sopra morti e macerie. L’aria mefitica e il caldo anomalo. «Ricorderò sempre che a Gemona c’era un elenco delle vittime. Si leggeva una sfilza di nomi, poi la dicitura: “Cadavere di sesso non riconosciuto”». Elia Tomai, quel 6 maggio 1976, era il trentenne sindaco di Fagagna, Comune confinante con Majano, uno dei 44 paesi rasi al suolo dal terremoto. Un «tuono» cui seguì la distruzione: 990 vittime, 2607 feriti, 75 mila edifici danneggiati, 18 mila cancellati.
Oggi, quarant’anni dopo, il Friuli ricorda quel sisma di magnitudo 6,4 della scala Richter, l’onda che sorprese un’Italia sonnolenta. Tre mesi dopo, l’11 settembre, arrivarono altre due scosse. Alle commemorazioni parteciperà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: per ricordare le vittime, certo, ma anche per celebrare la ricostruzione esemplare, il cosiddetto modello Friuli.
«PRIMA RICOSTRUIAMO LE FABBRICHE, POI LE CASE, INFINE LE CHIESE»
«Non rifare gli errori del Belice», era il titolo dell’editoriale pubblicato su La Stampa l’8 maggio del ’76, due giorni dopo. Ma i friulani si erano già messi in moto, seguendo il principio fasin di bessôi, facciamo da soli. «Una scelta è stata fondamentale», ricorda Sergio Gervasutti, 78 anni, primo inviato del Gazzettino ad arrivare nel «tunnel» del terremoto. E spiega: «Tutti, anche il nostro arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, avevano condiviso di ricostruire prima le fabbriche, poi le case e, infine, le chiese». Il lavoro per far ripartire tutto, secondo il mito dell’uomo friulano «saldo, onesto e lavoratore». E così fu. Se il Belice del 1968 era stato il sisma dell’improvvisazione e dell’incapacità statale (ferrovie non ricostruite, collegamenti interrotti, popolazione nell’indigenza per decenni), il Friuli doveva diventare punto di riferimento.
Il modello su cui verrà costruita la Protezione civile, con la responsabilità operativa affidata ai sindaci. Basta dare un’occhiata al grafico per rendersene conto: la ricostruzione del Friuli è l’unica a essere stata chiusa, nel 2006, dopo 30 anni. Il Belice ha provvedimenti legislativi con stanziamenti previsti fino al 2028, sessant’anni dopo. Burocraticamente il Friuli ha visto 9 decreti emessi nel corso degli anni, il Belice tre volte tanto. I 18,54 miliardi stanziati per il Friuli (rivalutazione al 2014) sono stati distribuiti meglio, 390.000 euro per ogni singolo sfollato. Tre volte il Belice (130.000), ma anche due volte l’Irpinia, che pure con i suoi 52 miliardi è stato lo stanziamento più massiccio di sempre.
LA PARTECIPAZIONE DELLE PERSONE
Vittime e ricostruzione, ma non solo. Dice Gervasutti: «Il terremoto fu uno spartiacque sia dal punto di vista socio-economico che della partecipazione politica». Il Friuli, che all’indomani del sisma si trovò con 5 mila lavoratori rimasti disoccupati, cambiò. «Da zona rurale, sottosviluppata d’Italia divenne centro di una serie ininterrotta di iniziative della piccola e media imprenditoria. Gli emigrati del primo Novecento cominciarono a rientrare ai “fogolar”, ai loro camini». Una crescita economica che andò a braccetto con quella culturale. «Non dimentichiamoci – ricorda Gervasutti – che l’Università di Udine, inaugurata nel 1978, è figlia del terremoto». Alle elezioni del giugno ’76 l’astensionismo in Friuli toccò i tassi più bassi d’Italia. C’era fermento, voglia di condividere, esserci. «Era come se fosse scattato qualcosa: si diede vita a gruppi teatrali, di poesia e lettura», ricorda il cronista Paolo Medeossi nel documentario Sopra le macerie, del regista Matteo Oleotto. Una testimonianza collettiva di quei giorni.
Quarant’anni dopo resta una domanda: e se succedesse ancora? Se l’Orcolat, l’orco popolare che causa i terremoti, si risvegliasse? «I nostri sindaci non hanno più la cazzuola in mano», sentenzia il primo cittadino di allora Tomat, oggi 70enne. «E ho paura che anche noi faremmo la fine dell’Aquila o del Belice, arriverebbero subito gli avvoltoi».
Fonte: La Stampa