C’era una volta il politico che andava in tivù e conquistava consensi.
Ora c’è il politico che va in tivù e, nonostante appoggi le terga su ogni poltroncina disponibile – da quella nazional-pop-trash di Barbara D’Urso a quella radical chic di Fabio Fazio – fallisce l’appuntamento con le urne.
Le cinque ore e rotte di presenza tivù accumulate a maggio 2016 da Matteo Renzi e Matteo Salvini, contro le quasi tre di Luigi Di Maio, non si sono trasformate in croci sulle schede.
LA TIVÙ PERDE TERRENO. Insomma la parola televisiva pare aver perso il suo potere di convincimento sul popolo.
Potere che forse, fa notare a Lettera43.it Giorgio Simonelli, docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo nonché opinionista a TvTalk, è stato sopravvalutato.
Anche «durante l’età d’oro dei talk». Ben prima dunque del crollo degli ascolti e della disaffezione del pubblico.
Questo non significa che la comunicazione politica sul piccolo schermo sia da rottamare, anzi.
FATTORI ALTERNATIVI. Solo che «fortunatamente», continua Simonelli, scettico anche in tempi non sospetti sul potere della parola politica in tivù, «il voto è condizionato anche da altri fattori, che si rivelano prevalenti».
Giovanna Cosenza, coordinatore del Corso di laurea in Scienze della comunicazione a Bologna, concorda: ««La tivù non è morta, anzi. È impossibile prescinderne. Ma tutto dipende da come si va in televisione».
Strette di mano, piazze e web: la ricetta vincente oltre il piccolo schermo
In altre parole, le comparsate non bastano a convincere l’elettore.
«Bisogna insistere anche sul contatto umano, le piazze, la Rete», insiste Cosenza. «Le strette di mano».
Che ora, in un periodo di crisi «macellaia», sono sempre più importanti.
Lo dimostra, spiega la professoressa, il flusso elettorale che ha evidenziato «il totale scollamento con le periferie delle città dove o non si è votato o si è scelto il Movimento 5 stelle». Alternativa alle forze politiche tradizionali.
«Stiamo vivendo in tempi di sfiducia», è il ragionamento, «per riconquistare il rapporto con il territorio è fondamentale». E il M5s dai V-Day di Beppe Grillo in poi l’ha capito.
GRILLINI, CAMBIO DI MARCIA. Se fino a qualche tempo fa i pentastellati erano penalizzati dal divieto di andare in tivù (e qualcuno come la consigliera comunale bolognese Federica Salsi per aver disubbidito è stato addirittura cacciato dal Movimento), or hanno cambiato marcia.
Vanno in tivù, partecipano ai confronti – non tutti certo, e sempre con la supervisione dello staff comunicazione – senza però abbandonare «il radicamento col territorio e la comunicazione in Rete», sottolinea Cosenza.
Un mix che alla fine ha pagato in termini di voti.
LA LEZIONE DI OBAMA. Nulla di nuovo, a dire il vero. «Nel 2008 Barack Obama», ricorda la docente, «riuscì a portare alle urne gli astensionisti proprio coniugando la comunicazione mainstream al door to door e il web».
I vari Di Maio, Di Battista e Fico poi sono cresciuti: hanno imparato a stare in onda, si sono fatti abili.
«A ogni domanda», sottolinea Simonelli, «hanno la risposta pronta, spesso propagandistica. Ribattono con critiche dure agli avversari».
L’INGENTILIMENTO DELLE STELLE. In più si sono «ingentiliti», continua il professore, apostrofando i conduttori con «dottore e dottoressa».
Quasi a prendere le distanze dal sistema, attraverso toni istituzionali.
Simonelli: «La politica raccontata in tivù è ripetitiva»
Ma il motivo del tracollo di Pd, e anche Lega Nord e Forza Italia, può essere letto anche attraverso un’altra lente.
Simonelli si spinge oltre il piccolo schermo. «Fino a poco tempo fa, chi governava le città veniva riconfermato. Ora non più e il motivo è semplice: i sindaci non hanno più soldi da spendere in politiche sociali, inziative culturali, in parcheggi e pure nelle sagre. Va da sé che lo scontento tra i cittadini cresca».
Chi governa insomma «è svantaggiato».
L’INCOGNITA IMPOPOLARITÀ. L’eccessiva presenza in tivù poi «può rivelarsi un boomerang», attacca Simonelli.
«Renzi e i renziani spesso risultano antipatici e impopolari. Mentre Salvini urla e sbraita. Non basta andare in onda con una felpa per vincere le elezioni».
Il leader leghista è sicuramente un buon comunicatore, aggiunge Cosenza. E non ha disertato le piazze.
Il problema in questo caso è un altro. «Nonostante Salvini abbia cercato di dare alla Lega un aspetto più rassicurante rispetto all’era di Bossi, non riesce a superare la soglia storica dell’11, 12%».
In Italia certe posizioni estremiste e xenofobe non trovano fisiologicamente un largo seguito.
Tradotto: «Il limite di Salvini sta nella sua proposta politica». Inutile inseguire il modello lepenista. «L’elettorato italiano è diverso da quello francese».
ASSIST ALL’ANTIPOLITICA. Al di là della simpatia o meno dei leader, la verità è che la politica raccontata in televisione «si è fatta ripetitiva», continua Simonelli, «e forse si è capito che le troppe chiacchiere nei salotti in realtà non fanno che alimentare l’antipolitica».
Discutere per ore se la crescita del Pil di uno zero virgola sia da intepretare come bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto rasenta «il comico».
Così come per Simonelli è ridicolo «difendere l’indifendibile come hanno fatto molti politici durante la sera elettorale». Uno stile mutuato pari pari dai radicali e dai socialdemocratici di 30 anni fa. Alla faccia del nuovo che avanza.
Inoltre «la situazione tripolare che si è venuta a creare», è l’analisi, «non favorisce il talk che da gestire diventa faticoso. I due poli erano l’ideale».
Forse è anche per questo che le trasmissioni di approfondimento dedicano sempre più tempo ai rischi nascosti in una tazzina di caffè o in una spugnetta per lavare i piatti troppo consumata. «Finalmente si parla di questioni concrete», sorride Simonelli. «Di vera politica…».
Autore: Francesca Buonfiglioli | Fonte: lettera43.it