A leggere i tanti commenti sui risultati del referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è facile annoiarsi o sorridere divertiti. Sembra che ogni interprete colga l’essenza drammatica della vicenda politica, attribuendo allo spirito anglosassone ora una qualità ora un’altra, paventando scenari apocalittici e suggerendo distanza o emulazione di fronte a un comportamento che ancora una volta nella storia mostra come La Manica non sia solo un confine geografico.
Proviamo a cogliere anche noi questa essenza in modo diverso e, di fronte a tanto entusiasmo, a riflettere in modo un po’ più prosaico. Quali sono i numeri? Il 48,1% dei votanti si è espresso per il “re-main”; il 51,9% per il “leave”. Sembra si tratti solo di uno scarto del’1,9%. Ma, come sempre, i votanti non corrispondono agli aventi diritto. Di questi, ben (o solo) il 71,8% ha espresso sì un’opinione, che, però, non si sa quanto fosse meditata, se si vuol dare un qualche valore al fatto che, nelle ore non precedenti, bensì successive alla chiusura delle urne, le domande principali digitate su google nel Regno Unito fossero sul significato dell’Unione europea e sulle conseguenze della Brexit. Le considerazioni sul diverso comportamento delle fasce d’età lo lasciamo ad altri, cui suggeriamo, tuttavia, di non immaginare meccanicamente quella maggioranza di giovani non votanti come un ovvio bacino elettorale potenziale a favore del “remain”. Semmai potrebbe essere utile chiedersi se la consultazione di google menzionata sia stata realizzata dalla vecchietta dello Yorkshire o dal giovane londinese amico di studenti Erasmus.
Comunque sia, a prescindere da chi ha vinto, lo stesso bisogno di istituire un referendum sul tema e la rilevazione di una sostanziale divisione a metà dei votanti esprimono senz’altro il malessere che buona parte della popolazione europea prova verso le conseguenze di molte decisioni comunitarie sulla qualità della propria vita. Il modo in cui si è svolto il referendum svela, invece, qualora ce ne fosse bisogno, la mistificazione su cui si basa il sistema democratico, soprattutto in società complesse, dove occorrerebbe maggiore informazione e competenza per esprimere una opinione e dove, al contrario, questa viene formulata a partire da ben poca cognizione di causa e da una continua richiesta di maggiore democrazia. È allora evidente che il meccanismo democratico vada riformulato e integrato anche da un complessivo ripensamento del ruolo dei mezzi di informazione di massa.
A livello di prassi politica, invece, la Brexit cosa significherebbe? È davvero l’inizio della fine? È parte di un processo inarrestabile o epifenomeno di una sentenza storica già scritta, che si tratta solo di rendere pubblica? Chi è abituato a studiare la storia in un certo modo potrebbe considerare la Brexit una decisione politica contingente, che può suscitare percorsi in direzioni totalmente opposte: la fine dell’Unione europea oppure una maggiore sensibilità sociale da parte delle istituzioni dell’Unione europea.
La prospettiva olistica è come sempre quella che offre la visione ovviamente più completa, soprattutto se è in grado di coniugarsi a uno sguardo attento al peculiare e, quindi, al rapporto tra globale e locale. In effetti, attraverso una lettura “glocal”, il voto intorno alla Brexit può essere interpretato come denuncia di una comunità di fronte ai problemi suscitati da un processo di integrazione che si fonda su prassi e logiche ancora tipiche dello Stato moderno. Uno Stato, per quanto federale possa cercare di essere, è infatti pur sempre uno Stato, con le sue dinamiche di potere gerarchico. È curioso notare come l’autonomismo scozzese abbia prodotto, con percentuali inequivocabili, la dichiarazione di una maggiore sensibilità europea, quasi che lo stare in Europa fosse preferibile all’essere parte esclusivamente nel Regno Unito.
Il risultato delle urne, per le ragioni anzidette, sembra quindi dire poco rispetto a quanto si sapeva prima e sembra implicare conseguenze molto meno certe di quanto non si voglia far credere. Il processo di localizzazione è altro dal processo di integrazione europea. Qui, i protagonisti sono gli Stati, che cercano di generare un super Stato. Là, le protagoniste sono le comunità locali, città o regioni o città-regioni, che cercano di generare di fatto un ordinamento politico orizzontale e globale, reticolare. Entrambi i processi sono in fieri, si intersecano, si contaminano, si provocano, ma si spiegano attraverso logiche differenti.
Fonte: Huffingtonpost.it | Autore: Davide Cadeddu