Tante e tante volte ho scritto che amo la Francia, di un amore profondo, sincero e pregiudiziale, considerato che di quel magnifico Paese non parlo la lingua e non ci ho mai passato più di 3 settimane consecutive. Ma gli amori, quelli veri, non vanno spiegati, altrimenti si stropicciano, vanno vissuti, come e quando si può, godendosi ogni minuto.
La mia è una Francia idealtipica, fatta di villaggi con il ruscello, di vecchietti in basco e bicicletta, pingui signore con la baguette sotto il braccio, castelli delle fiabe, immense cattedrali gotiche e piccole trattorie con il carrello dei formaggi bene in vista.
E poi la Francia Paese inclusivo, dove quando qualcosa non va la gente scende in piazza, la filosofia è parte integrante di ogni ciclo di studi e esiste una tradizione plurisecolare di accoglienza: anche il co-imperatore bizantino Giovanni VII Paleologo – convinto dello scarso futuro del suo Impero – quando cercava una via di fuga valutò seriamente di trasferirsi in riva alla Senna, proponendo a re Carlo VI l’acquisto dei diritti al trono dei malconci eredi dei Cesari in cambio di una rendita di 25.000 pezzi d’oro e un castello.
Una tradizione di accoglienza codificata nel Preambolo della Costituzione della IV Repubblica – “Ogni uomo perseguitato per la sua azione in favore della libertà ha diritto d’asilo sui territori della Repubblica“- e talmente seria che chiunque lo avesse richiesto ha sempre ottenuto asilo, dai Fratelli Rosselli, a Sandro Pertini fino al tetro e truce Ayatollah Khomeyni. Per dirla con Thomas Jefferson: “ogni sincero democratico ha due Patrie, la propria e la Francia”.
Certo, la mia è una visione romantica ed edulcorata, la Francia è ovviamente anche altro (e talvolta ben di peggio), ma anche io – come Charles de Gaulle – posso dire che “Toute ma vie, je me suis fait une certaine idée de la France”.
Questo vale soprattutto per Parigi. La mia Parigi, quella con i palazzi alti, con i tetti d’ardesia e gli abbaini. I boulevards imperiali e le viuzze dove perdersi, le seggiole in paglia dei bistrot, i corridoi del Louvre, i parchi e il lungosenna con i turisti stesi a riposare al sole. E soprattutto la mia meta “fissa” di ogni visita a Parigi: la Promenade Plantée, una lunga passeggiata tra i tetti e in mezzo al verde, un percorso dolce e protettivo ricavato dalla dismissione di una linea ferroviaria sopraelevata, con la tranquillità e il silenzio mentre la città sotto freme di vita e attivismo.
Lo so, esistono altre Parigi. La Parigi multinazionale e multietnica. La Parigi che guarda il futuro, città cosmopolitica e innovativa. La Parigi delle tensioni e del dolore delle banlieu, dove il francese è seconda lingua, talvolta terza. Insomma la Parigi “vera”, non la mia amata cartolina.
Ma è una Parigi che non mi interessa. Ne riconosco valore e importanza, ma non sono un giornalista tenuto a documentare tutto quanto avviene e non sono uno studioso di sociologia urbana. So che la “mia” Francia e la “mia” Parigi non sono tutta la verità, ma ne sono comunque una parte e io quella guardo e in quella voglio rispecchiarmi. Soprattutto quando avvengono fatti tragici che risvegliano in me la sofferenza per il dolore inflitto e l’amore infinito per la civiltà violata.
Ho quasi 50 anni, ho visto il terrorismo rosso e nero, provato la paura per l’Olocausto Nucleare, sentito il sistema di welfare state scivolarmi via dalle mani, sbattuto il muso contro la Globalizzazione, ho dovuto rialfabetizzarmi per tenere il passo di una rivoluzione informatica e digitale senza fine. E ora mi tocca convivere con l’incubo di esplodere o venire pugnalato da qualche esaltato intossicato da una lettura poco attenta di uno dei tanti Libri Sacri che l’Umanità inventa di tanto in tanto solo per il gusto di trovare modi nuovi per peggiorarsi la vita.
Ho bisogno di tirare il fiato, di girare la testa, almeno un po’, almeno ogni tanto. E quindi scusatemi se mi rifugio nella “mia” Francia, nella “mia” Parigi e magari inizio a leggere un nuovo Maigret…
Era un maggio eccezionale, come ne capitano due o tre nella vita, di quelli che hanno la luminosità, il sapore, il profumo dei ricordi d’infanzia. Maigret lo definiva un maggio «da cantico», perché gli ricordava la prima comunione e insieme la primavera del suo primo anno a Parigi, quando tutto per lui era nuovo è meraviglioso.
Per strada, sull’autobus, in ufficio gli succedeva di bloccarsi d’improvviso, colpito da un suono lontano, da una ventata d’aria tiepida, dalla macchia chiara di una camicetta che lo riportavano indietro di venti o trent’anni.
Il giorno precedente, mentre si preparavano per andare a cena con i Pardon, la moglie perché sto quasi arrossendo:«Non faccio ridere, alla mia età, con un vestito a fiori?». Quella sera i loro amici avevano introdotto una novità. Anziché invitarli a casa, li avevano portati in un ristorantino di boulevard du Montparnasse, dove avevano cenato all’aperto.
Ecco, mi pare di vederla la Signora Maigret, con il suo vestito a fiori, verso la metà degli anni ’50. Con poche auto in strada, un po’ di umido nell’aria, il cielo grigio perché forse pioverà e – se mi concentro bene – riesco quasi a vedere il vecchietto con il basco e la bicicletta, con la baguette sotto il braccio…
PS. Post scritto in reverente e commosso ricordo della Piccola sotto il telo e della sua bambola abbandonata sul selciato, a due passi dalla dolcezza della spiaggia di Nizza.
Autore: Marco Cucchini (C) Poli@rchia