Il linguista che da decenni studia il rapporto fra mente e politica spiega il metodo di comunicazione del candidato repubblicano: “Non usa parole a caso, sa quali reazioni provocherà”.
Buco nero della politica o nuova frontiera della comunicazione? Una scheggia impazzita o un campione costruito in laboratorio? George Lakoff, che da decenni studia il rapporto tra mente e politica, non ha dubbi: c’è del metodo nella follia di Donald Trump.
Professore, l’astrofisico Stephen Hawking ha detto che è più facile comprendere l’origine dell’universo che spiegare la popolarità di Donald Trump.
“Apprezzo la battuta, ma fermiamoci lì. Il successo di Trump non è affatto un mistero. La sua popolarità nasce dall’applicazione rigorosa di un metodo di comunicazione che, piaccia o meno, sta condizionando il dibattito politico e ha profondi effetti sulle scelte degli elettori. Donald Trump ha un talento innato per le provocazioni e le iperboli, cosa che gli permette con estrema facilità di calamitare l’attenzione dei media lasciando in penombra gli avversari. Ma ridurre tutto a una questione di carattere, per quanto vulcanico e imprevedibile, sarebbe un grave errore “.
Addirittura?
“La comunicazione politica è da tempo entrata in una dimensione nuova che utilizza gli effetti che certe parole hanno sulla nostra mente, finendo per condizionare le nostre opinioni e, ovviamente, le nostre scelte elettorali”.
Non è sempre stato così?
“La storia ha sempre prodotto dei leader il cui carisma e successo erano dovuti alla capacità naturale di trovare espressioni e frasi in grado di colpire il cuore e le menti di chi li ascoltava. La differenza è che prima tutto questo avveniva per caso, mentre oggi sappiamo perché accade. E può essere ottenuto di proposito”.
Sta dicendo che il nostro cervello risponde passivamente alle parole che ascolta?
“No, sto dicendo che alcune parole, alcune frasi possono innescare dei meccanismi inconsci e automatici. Se le dico “Non pensare all’elefante”, che è il titolo di un mio libro ma anche un gioco che faccio con gli studenti all’inizio di ogni corso, lei, che lo voglia o no, finisce per disobbedirmi e pensare proprio all’elefante, perché l’immagine di quell’animale è molto nota e viva nella mente di ciascuno di noi. E molto più immediata del mio ordine, con il quale le ho chiesto di “non pensare”. Lo stesso avviene nella comunicazione politica: ci sono parole, frasi, metafore che, più di altre, attirano l’attenzione della mente suscitando reazioni positive o negative e che, per questo, lasciano il segno in chi le ascolta”.
Qualche esempio?
“Prendiamo la questione degli immigrati e dei rifugiati. I termini che più si usano sono quelli di “invasione” e di “onda” che, se ci pensiamo, sono delle immagini, delle metafore che spostano, anzi rovesciano i termini del problema. Perché le vittime non sono più i migranti che fuggono da situazioni oggettive di pericolo e difficoltà, ma gli europei che vengono “invasi” e travolti da “ondate” migratorie contro le quali, non a caso, si costruiscono muri e barriere. Degli argini, appunto. Il risultato è che abbiamo un problema enorme, una emergenza umanitaria che andrebbe gestita con intelligenza e razionalità, mentre quello che accade è esattamente l’opposto, con atteggiamenti privi di senso dettati da paura e irrazionalità”.
Tutto questo per le parole che si usano?
“Il nostro cervello è una macchina complessa che deve gestire una quantità impressionante di informazioni. Appena può, utilizza schemi che ha già elaborato e che già conosce. Quando qualcosa di nuovo attira la sua attenzione, prima di cominciare da zero guarda se al proprio interno ci sono immagini e concetti che possono essere utilizzati. Non ce ne accorgiamo perché il 93 per cento dell’attività cerebrale avviene a livello inconscio, ma nella nostra testa procediamo per schemi e metafore: utilizziamo qualcosa di noto e familiare per meglio comprendere qualcosa di nuovo e insolito. Il guaio è che se la vecchia immagine è troppo forte, troppo potente, la metafora ci porta fuori strada. Anziché conoscere e comprendere qualcosa di nuovo, ripetiamo qualcosa di vecchio. E non capiamo quel che sta accadendo “.
E questo cosa c’entra con la comunicazione politica?
“C’entra, perché nei discorsi di molti politici l’uso delle metafore non è casuale, ma voluto e cercato. Studiato. I primi a capirlo sono stati i Repubblicani che ne hanno quasi fatto una scienza, piegandola ai loro interessi. Frank Luntz, famoso e bravissimo cognitivista, ha scritto diversi manuali sulle parole e le espressioni che i Repubblicani dovrebbero usare per vincere le elezioni. È stato lui a inventare il famoso “Contratto con gli americani”, poi importato in Italia da Berlusconi. Lui ha suggerito ai Repubblicani di abbandonare l’espressione “riscaldamento globale” sostituendola con la più generica “cambiamento climatico”: la prima implica che qualcuno abbia innescato un processo negativo e che si possa fare qualcosa per interromperlo, la seconda libera l’uomo, e le aziende petrolifere, da ogni responsabilità perché rimanda tutto a mutamenti naturali contro cui non possiamo agire. È il clima che cambia e noi non possiamo farci nulla “.
Glielo chiedo di nuovo: tutto solo grazie ad alcune parole?
“Non si tratta di parole ma di ” frame”, schemi mentali che abbiamo all’interno del nostro cervello. Le parole che usiamo non fanno altro che attivare schemi che già esistono. Prima vengono i frame e poi le parole. L’abilità di uno scienziato cognitivista è riconoscere i frame presenti nella nostra mente, l’abilità di un politico è usare le parole in grado di attivarli”.
Torniamo a Trump.
“È una macchina da guerra, perché sa esattamente come attivare i frame che riscaldano i cuori e le menti dei Repubblicani. Con una particolarità in più: che senza perdere il consenso dei suoi, riesce ad attirare l’attenzione di fasce ancora indecise del bacino elettorale. Trump non usa un linguaggio moderato, eppure riesce a richiamare parte di quello che, sbagliando, viene definito il popolo moderato”
Perché non si può definirlo così?
“I moderati, da un punto di vista cognitivo, non esistono. Esistono progressisti e conservatori, che guardano e interpretano il mondo con schemi mentali, frame appunto, molto differenti tra loro. In mezzo non ci sono moderati, ma persone che hanno nella mente alcuni schemi tipici dei progressisti e altri propri dei conservatori. Quelli che chiamiamo moderati sono in realtà dei “biconcettuali”, perché su alcuni argomenti possono rispondere ai richiami di un Bernie Sanders o di una Hillary Clinton mentre su altri ascoltano con interesse Trump. Secondo uno studio recente esistono almeno 15 tipi di biconcettuali, che miscelano in modo diverso i frame conservatori con quello progressisti”.
Quindici sfumature di grigio?
“No, quindici mosaici diversi composti da un diverso assemblaggio di tasselli bianchi e tasselli neri. I tasselli grigi non esistono”.
Faccia qualche esempio.
“Trump è per la genitorialità pianificata, per mantenere l’assistenza sociale e quella medica, anche se in forma privata: non sono posizioni tipiche di un Repubblicano di origine garantita. In compenso vuole deportare undici milioni di immigrati e impedire l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, cosa che lo pone alla destra estrema del suo stesso partito. I Repubblicani sostengono l’accordo di Partenariato Trans Pacifico, lui lo definisce “disastroso e terribile”. Nessun Repubblicano si permetterebbe di criticare i profitti di un’azienda, lui ritiene che quelli delle compagnie farmaceutiche e assicurative siano eccessivi e ingiustificati. È un uomo di destra, ma nel cinturone ha anche cartucce degli avversari. Poi, per rimettere le cose in chiaro, diventa aggressivo, violento e politicamente scorretto, cosa che piace ai conservatori più spinti”.
Trump avrebbe dunque trovato il modo di parlare a molti dei cosiddetti elettori- mosaico senza perdere contatto con i suoi. E gli altri?
“Sanders parla con molta efficacia al suo popolo, ma solo a quello. Hillary ha scelto di conquistare l’attenzione dei biconcettuali, ma a costo di una freddezza da parte dei democratici duri e puri che infatti le preferiscono Bernie. Trump è l’unico in grado di riscaldare sia il proprio popolo, quello dei conservatori convinti, che molti dei biconcettuali”.
Sarà lui il futuro presidente?
“È troppo presto per dirlo, anche perché quando il confronto entra nella fase finale le dinamiche cambiano e la comunicazione pure. Dico che il fenomeno Trump ci sta mostrando una cosa importante o almeno interessante”.
Quale?
“Che non è vero che per vincere bisogna spostarsi al centro: al contrario, se difendi con convinzione i tuoi valori riuscirai sia a tenere i tuoi elettori che a conquistare una parte importante dei cosiddetti biconcettuali. Trump lo ha capito bene. Spero lo comprenda anche Hillary, prima che sia tardi”.
Fonte: repubblica.it | Autore: Luca Landò