Il “McGuffin” della politica italiana

Il “McGuffin” della politica italiana

Alfred Hitchcock inventò il termine “McGuffin” per definire uno strumento pretestuoso necessario a fornire una certa vivacità alla trama, attorno al quale si snodano le passioni e le ansie dei personaggi, ma che per lo spettatore non ha una reale importanza. Non importa se le bottiglie nella cantina di Sebastian in “Notorious” contengano effettivamente uranio, perché se fossero diamanti o microfilm la storia funzionerebbe comunque: conta che esistano e dentro vi sia qualcosa, così come è irrilevante il modo in cui si sia rotto una gamba James Stewart ne “La Finestra sul Cortile” – se sia caduto dal letto o inciampato in ufficio – importa solo che sia immobilizzato in casa e questo gli dia l’opportunità di spiare i vicini.

La riforma della legge elettorale è un po’ il costante McGuffin della politica italiana: sembra rivestire una grande importanza per i protagonisti in palcoscenico che si accapigliano su di essa, mentre per il pubblico che assiste all’interminabile feuilleton i dettagli sono del tutto irrilevanti e conta solo che la trama proceda e si faccia finalmente un qualche passo avanti.

E’ opinione di chi scrive che non ci sarà alcuna riforma elettorale, si voterà con il sistema uscito dalla sentenza della Corte Costituzionale, presumibilmente a fine 2017 o – a scadenza naturale – nel febbraio 2018, ma fingiamo di prendere tutta questa vicenda sul serio. Fingiamo di credere che vi sia realmente un cantiere aperto sulla riforma elettorale e che i “tecnici” (o presunti tali) dei partiti siano effettivamente impegnati a produrre una normativa nuova, migliore delle precedenti.

Perché ciò accada vanno tenuti presenti 2 postulati di partenza e evitati 3 errori politici di fondo.

Postulato 1 (relatività): nella storia del Mondo hanno trovato applicazione più di 300 diversi sistemi elettorali e non possiamo certo immaginare che uno sia quello giusto mentre 299 siano tutti sbagliati, per la semplice ragione che quello che conta è il contesto politico nel quale un sistema viene a collocarsi, la sua capacità di essere coerente con lo sviluppo storico e il quadro socio-economico di riferimento. Sperare che copiando i dettagli tecnici di un modello vigente in un sistema diverso significhi anche importarne le virtù è ingenuo e nessuna riforma è valida se non è preceduta da una attenta lettura della realtà nella quale dovrà calarsi.

Postulato 2 (politicità): nei sistemi elettorali non esiste nulla di tecnico, tutto è dannatamente politico: ampiezza delle soglie di sbarramento; se sono necessarie firme a supporto delle candidature; quale formula di riparto dei seggi è utilizzata; come è disegnata una circoscrizione… ricordo con chiarezza un pomeriggio del 1993: ero da poco iscritto al PDS, stavo scrivendo la tesi di laurea sulla “Bicamerale De Mita/Iotti” e mi fu dato l’incarico di proporre alcune linee guida di riforma della legge elettorale regionale. Presentai una relazione da secchione, piena di dottrina e di visioni ardite. In sede di dibattito, un segretario di zona mi chiese “ma la formula di divisione rimarrà quella vigente?”. Io non ci avevo pensato, mi sembrava un dettaglio secondario, dissi di si (per dire qualcosa) e lui replicò: “allora il giovane compagno deve studiare ancora un po’, perché in questo caso noi perderemmo un seggio in Alto Friuli”. Aveva ragione lui, il “microdettaglio” ci sarebbe costato un seggio.

Tenere presente i due postulati di cui sopra – la relatività e la politicità del sistema elettorale – è condizione necessaria per una riforma ma non sufficiente. Vanno anche evitati 3 errori politici che sono sempre dietro l’angolo.

Errore 1 (frettolosità). Sperare di risolvere in modo istantaneo problemi politici grazie a escamotage tecnici è un errore. Immaginare un sistema elettorale capace – ad esempio – di ridurre i poli da tre a due in un colpo solo; pensare a regole per tagliare fuori dalla competizione uno dei soggetti in campo o innamorarsi di formulette propagandistiche (del tipo “sapere la sera del voto chi ha vinto”) è un errore. Ogni meccanismo elettorale ha bisogno di tempo per sviluppare appieno i propri effetti sistemici: in uno degli studi più interessanti degli ultimi 20 anni [Gary W. Cox, I voti che contano, Il Mulino, 2005] viene dimostrato come ogni sistema elettorale porta i diversi attori (candidati, partiti, elettori) a coordinare il proprio comportamento strategico al fine di ottimizzarne le caratteristiche, ma affinché questo accada è necessario un lasso di tempo rilevante durante il quale sono da evitarsi cambiamenti nell’architettura del sistema stesso. Cioè non ci si deve aspettare che un sistema funzioni a pieno regime all’istante e non si deve cambiarlo subito solo perché non ha dato nell’immediato i vantaggi sperati.

Errore 2 (l’abito sartoriale). Ogni singolo partito ha in mente il proprio “sistema perfetto”, vale a dire una modalità di trasformazione dei voti in seggi tale da massimizzare il proprio vantaggio e enfatizzare lo svantaggio degli altri attori. Un esempio è stato l’Italicum, in cui ogni singolo dettaglio è stato pensato secondo l’esclusivo interesse del PD nella versione deluxe del 2014 ma che ora – essendo i tempi più grami – si vuole cambiare in tutta fretta perché il contesto è totalmente diverso. Quando si afferma che “le regole del gioco vanno cambiate assieme” non è solo buonismo istituzionale, ma anche una scelta razionalmente sensata: regole condivise sono regole più longeve, si evita che ad ogni legislatura la maggioranza di turno stravolga il tavolo e si rende più agevole il dispiegarsi di quel “coordinamento strategico” ricordato nel punto precedente.

Errore 3 (annaspare nel buio). Se si cade nei due errori precedenti – vale a dire cedere alla tentazione di costruirsi regole su misura e sperare che gli equilibri sistemici cambino in un colpo solo – si finisce invariabilmente a compiere un terzo errore: il muoversi a tentoni senza una direzione chiara, un faro, un’idea. Perché nessuna legge elettorale funziona se non si risponde prima alla domanda “quale modello di rappresentanza ci serve? Qual’è il più adatto per il nostro Paese?”. Nel 1946 venne scelto il proporzionale perché il sistema più adatto a dare voce a un’Italia la cui politica era articolata e strutturata dai grandi partiti politici organizzati e capillarmente presenti su tutto il territorio nazionale, mentre nel 1993 l’adozione del maggioritario uninominale di collegio era coerente con la centralità acquisita dai territori, della quale anche la legge sull’elezione diretta dei sindaci (del medesimo anno) era espressione. Ma il passaggio al Porcellum nel 2005 è stato l’errore capitale: una legge elettorale pensata ad uso esclusivo dei proponenti, del tutto avulsa dall’evoluzione e dalle esigenze della comunità politica, che da allora ha portato solo scadimento della qualità degli eletti (causa liste bloccate), trasformismo e instabilità politica.

Però una buona legge elettorale serve. Una legge che semplifichi la rappresentanza senza mortificarla, che favorisca un più stretto collegamento tra eletti ed elettori e porti a una migliore selezione qualitativa della classe politica nel suo complesso. Solo che non credo che gli attuali protagonisti del dibattito politico e istituzionali abbiano le doti culturali e morali per passare da una visione strumentale e particolare ad una sistemica: con un PD in campagna elettorale permanente dal 2014, un M5S ogni giorno più populista e imprevedibile e un centrodestra legato ancora – come sempre dal 1994 – alle sorti personali di Berlusconi non si va certo lontano.

E il tema della legge elettorale è destinato a rimanere ancora a lungo il “McGuffin” della politica italiana: un trucco narrativo per distrarre lo spettatore, mentre attorno accade dell’altro.

Marco Cucchini | Poli@rchia (c)

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