Uno spettro si aggira per l’Europa. Lo spettro del libero suffragio elettorale universale.
Le elezioni sono il sale della Democrazia. La gente si mette pacificamente in fila e aspetta il proprio turno per esprimere una scelta e contribuire in questo modo a determinare l’instaurazione e l’indirizzo di un «governo del popolo, dal popolo, per il popolo», tanto per citare il lincolniano Discorso di Gettysburg del 1863. Le elezioni libere, aperte e competitive sono il grande contributo donato al Mondo dalla Civiltà Occidentale, che dopo secoli nei quali le questioni interne si risolvevano con la Guerra delle Due Rose o con la Notte di San Bartolomeo ha istituzionalizzato una modalità pacifica e ordinata per governare le sorti delle comunità.
Insomma, dovremmo sentirci orgogliosi ogni volta che un cittadino da qualche parte del Mondo infila in libertà e coscienza una scheda elettorale nell’urna. Ma non è così. Da anni ormai ogni competizione elettorale è vista con preoccupazione e la stampa sottolinea invariabilmente che “c’è fibrillazione nei mercati” e “preoccupazione a Bruxelles”. Quando un popolo vota, i grattacieli dell’economia, della finanza e delle tecnocrazie tengono il fiato pensando “chissà mai cosa combineranno quei milioni di scombinati tutti in fila”.
Quando un popolo vota, sarebbe da evidenziare soprattutto la partecipazione e magari la soddisfazione perché un nazione rinnova la propria leadership in modo pacifico. Ed essere lieti perché chi vince le elezioni trarrà dal consenso popolare forza e credibilità che potrà poi spendere anche sul tavolo internazionale. Invece la cosa che sembra contare maggiormente è lo “scampato pericolo” per l’economia globale e i mezzi di informazione indirizzano l’attenzione quasi solo su questo. Lo abbiamo visto anche in queste ore: non conta il bene dei francesi (che in fondo sono quelli recatisi a votare) ma quasi esclusivamente quello della speculazione finanziaria e dei parametri matematici stabiliti dalle istituzioni comunitarie. La vittoria di Macron sarebbe positiva – ho letto sul “Corriere della Sera” – perché “garantisce il contenimento del debito pubblico”.
Certo, conosco un po’ di economia. Non molto, ma quanto basta per capire il livello di interconnessione che esiste oggi tra i diversi sistemi e come si sia tutti legati alle oscillazioni degli altri, come tessere di un domino. Però questa attenzione esclusiva alle logica extranazionali della competizione ci fa perdere di vista una cosa importante: le istituzioni politiche traggono la propria stabilità anche dalla fiducia dei governati e dalla convinzione che chi governa sia lì perché lo merita e perché il suo lavoro va in direzione dell’interesse collettivo. E questo ci porta al secondo punto: il concetto di “populismo”.
E’ ormai invalsa l’abitudine di definire come “populista” qualsiasi leader o movimento portatore di un messaggio politico avverso all’establishment. Ma è un utilizzo rozzo e scorretto del termine perché non distingue tra livelli di critica e credibilità di proposta. E’ un approccio che sarebbe stato sbagliato applicare in passato a partiti quali – ad esempio – il Labour Party o il PCI – che pur essendo fortemente critici sull’assetto economico e sociale del loro tempo, non erano certo portatori di una generica protesta avulsa da un preciso ancoraggio con le necessità e le aspettative di ceti sociali definiti. E, in fondo, una politica che non si pone l’obiettivo di incidere sulla realtà, magari anche modificando assetti socioeconomici o di potere consolidati, si può ancora definire “politica”? Che senso ha scollegare l’idea di politica da quello di cambiamento?
Forse sarebbe più corretto eliminare il termine “populista” (che, tra l’altro, ha pure una precisa connotazione storica) e riscoprire il termine “demagogico”. Che però si applica non solo a chi è all’opposizione, ma talvolta anche a chi governa: ad esempio Luca Ricolfi – da pochi giorni in libreria con il suo saggio “Sinistra e Popolo” (Longanesi)- nota che anche certi tratti polemici dell’ultimo Matteo Renzi nei confronti dell’Europa, della Germania o della “casta” potrebbero tranquillamente essere inseriti nella “retorica populista” o – più propriamente – nella categoria del discorso pubblico di stampo demagogico. Questo per ricordare che, purtroppo, quando inizia lo scadimento del dibattito pubblico non è facile, neppure per leader “costituzionali” e democratici, porvi agevole argine.
In definitiva, sarebbe importante riscoprire il valore della democrazia rappresentativa che si esprime attraverso libere elezioni, senza considerare in via esclusiva l’impatto che il voto ha sugli “animal spirits” del mercato o il gradimento che questo o quel candidato riesce a ottenere tra le grisaglie grigie che si aggirano severe tra i palazzoni dell’UE. E questa distinzione non può che accompagnarsi ad un altra, parimenti necessaria: quella tra politici “che chiacchierano” e politici “che propongono”.
Forse rimettere a fuoco le priorità e ripartire dal linguaggio potrebbe essere la strada per riconiugare il “popolo” con le istituzioni rappresentative democratiche.
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)