Dal judo digitale delle elezione del 2014, alla strategia dell’uno contro tutti della campagna 2016: nel racconto di Francesco Nicodemo, autore di “Disinformazia”, il cambio di strategia digitale che è costato carissimo a Renzi. E che ha cambiato il corso della legislatura.
Francesco Nicodemo, napoletano, classe 1978, è stato responsabile comunicazione della segreteria Renzi dal 2013 al 2014. “Disinformazia, la comunicazione ai tempi dei social media” (Marsilio, 2017), è il suo primo libro e sarà presentato lunedì 17 luglio alle 18,30 presso la redazione di Milano de Linkiesta. Per introdurlo, ne pubblichiamo un estratto.
In pochi mesi la Pd community era diventata pienamente operativa, in vista delle europee 2014. Tocca qui ricordare, però, che fino alle precedenti fallimentari elezioni politiche del 2013, il ruolo della rete per il Pd era stato limitato a una sorta di canale di comunicazione broadcast, aggiuntivo rispetto ai tradizionali mass media.
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I limiti del vecchio gruppo dirigente, tutti relativi alla conoscenza del mezzo, erano stati la causa del mancato investimento organizzativo e formativo nelle potenzialità della rete, riducendo la presenza digitale del Pd quasi unicamente a contrastare in maniera aggressiva i principali avversari, ad esempio attraverso una «War Room», un gruppo di «soldati» digitali pronti a rintuzzare qualsiasi critica in ogni spazio possibile, colpo su colpo. Un approccio poco politico e molto emotivo, ma soprattutto controproducente, perché, come un animale ferito che considera minaccioso chiunque gli si avvicini, così la comunicazione della War Room tendeva ad allontanare anche i potenziali elettori del Pd. Nella campagna elettorale per le europee 2014, invece, la Pd community aveva altri obiettivi da perseguire: valorizzare militanti, mobilitare i volontari e infine allargare la comunicazione verso l’esterno, verso gli elettori storici e quelli potenziali del Pd. Già nella strategia generale della campagna delle europee 2014 (…) l’importanza dei militanti e degli elettori era centrale. La campagna si chiamava infatti «Ce lo chiedi Tu», la premessa era non solo quella di un nuovo corso politico che chiamava per nome i cittadini e dava del tu, ma era data anche dal rovesciamento dello schema secondo cui le scelte di governo fossero «i compiti a casa» assegnati da cancellerie e tecnocrazie europee, e fosse piuttosto la necessità di fare la cosa giusta per l’interesse dell’Italia. Non era quindi l’Europa a chiedere le riforme strutturali del Paese, ma ogni singolo cittadino.
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Dal momento che le elezioni europee sono sempre percepite con una certa distanza dall’elettorato, bisognava inoltre far sentire il peso dell’Europa nella vita dei cittadini. Perciò la Pd community (…) coordinava tramite le stanze digitali provinciali la possibilità di produrre manifesti con volti e slogan che rappresentassero le esigenze locali. Inoltre, veniva realizzato un generatore automatico di manifesti, in cui ogni singolo utente della rete poteva personalizzare i manifesti della campagnacon le proprie richieste e condividerli sui social network.
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Quando poi un avversario politico si scatenava sulla rete con aggressività contro il Pd, la risposta della comunità digitale era non solo veloce ed efficace, ma ribaltava la forza e il paradigma dell’attacco contro l’avversario stesso, in una sorta di «judo digitale», tanto che alla fine lo scenario risultava completamente capovolto. Il 17 aprile 2014, a pochi giorni dalla presentazione della campagna di comunicazione del Pd, l’M5s, attraverso l’account Twitter di Beppe Grillo, faceva un’operazione di adbusting (cioè l’azione di modificare opere grafiche già esistenti, in modo da stravolgerne il significato23) dei manifesti del Pd «Ce lo chiedi Tu», sostituendo ai militanti l’immagine di Silvio Berlusconi, mentre nel tweet di riferimento si leggeva:«Le riforme costituzionali con un pregiudicato #GlieloChiedeSilvio». Lo stesso account poi rilanciava e ritwittava decine di messaggi, moltissimi con insinuazioni e offese al Pd. Il punto debole di questa strategia non stava tanto nell’utilizzare la campagna dell’avversario facendo da ripetitore al suo messaggio (una classica eterogenesi dei fini della comunicazione politica), quanto piuttosto nel non aver ancora presentato un programma elettorale, o non aver prodotto uno slogan per le europee. E proprio su questo argomento la Pd community utilizzava la strategia che prima definivo «judo digitale». Nella What Room si decideva infatti di non rispondere a tono, lamentandosi del fatto che Grillo avesse copiato e «sporcato» la campagna di comunicazione, dando in questo modo visibilità all’attacco, ma di ribaltare contro di lui le aporie della sua strategia. In poche ore dall’attacco grillino semplici militanti, attivisti, dirigenti del Pd pubblicavano tweet con l’hashtag #CeLoChiedeBeppe e allegavano l’immagine della campagna «Ce lo chiedi Tu», in cui però campeggiava una sagoma grigia, senza volto né identità, con la didascalia: «Uno straccio di idea (per l’Europa). Ce lo chiede Beppe». Non solo quest’immagine, lanciata dall’account ufficiale del Partito democratico, diventava subito virale, ma anche l’hashtag #CeLoChiedeBeppe era rilanciato migliaia di volte, restando stabilmente in testa ai trending topics per tutta la giornata del 17 aprile.
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Effettuando un’analisi dei primi dieci hashtag utilizzati su Twitter durante le europee, mettendo a confronto i primi quindici influencer per ognuna delle due macro-community del Pd e dell’M5s, è possibile osservare che i democratici utilizzavano hashtag propri (cioè inventati e afferenti alla propria community) nel 70% dei casi, e quelli degli avversari solo nel 20% dei casi (il restante 10% erano hashtag «neutri»), mentre i grillini adoperavano hashtag propri nel 20% dei casi e quelli degli avversari nel 40% (anche qui il restante 40% era neutro). In sostanza la Pd community imponeva l’agenda comunicativa sulla rete e guidava le conversazioni social, focalizzandosi sui propri temi, mentre l’M5s inseguiva sulle conversazioni e sui temi degli avversari, nei fatti contribuendo a fare da cassa di risonanza e a diffonderli. Se pensiamo che appena un anno prima, alle elezioni politiche del 2013, la maggior parte dei commentatori e analisti politici aveva attribuito grande importanza alla rete nell’ottima performance elettorale dell’M5s, i risultati ottenuti sulla rete dalla Pd community sono sorprendenti.
Nelle europee 2014 è stato certamente fondamentale centrare il racconto politico nel dualismo «speranza contro rabbia», come Matteo Renzi lo aveva al tempo definito. Ma proprio grazie alla Pd community, attraverso la mobilitazione collettiva dei volontari sulla rete e sulla strada, è stato possibile declinare questo racconto nell’impegno, nella partecipazione e nel coinvolgimento dei militanti. Pur non disponendo di dati e analisi puntuali che ci dicano quanto abbia inciso la nuova comunicazione online e la Pd community nella vittoria del Pd alle elezioni europee, il risultato finale, con il 40,8% delle preferenze, e il buon senso ci porta a credere, senza tema di smentita, che una fetta del successo sia dipeso proprio dalla nuova strategia adottata in rete. La Pd community era stata pensata per accompagnare quotidianamente nella comunicazione il partito e fare da interfaccia connettiva con le istanze dei cittadini, degli elettori, dei militanti non solo in occasione delle campagne elettorali. Dopo le europee, l’approdo naturale e necessario avrebbe dovuto essere l’organizzazione dei community organizers dei territori. Ma le cose sono andate diversamente. La nuova segreteria del Pd, infatti, nominata dopo quelle elezioni, non ha ritenuto di investire lo stesso tempo ed energie sul progetto.
Non è stato lo squilibrio di forze il problema, come non lo era stato alle europee del 2014 dove il Pd comunque aveva gareggiato da solo contro tutte le altre forze politiche, piuttosto, come abbiamo visto, il differente approccio online che ha fatto emergere contenuti differenti
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Quando invece, nell’autunno del 2016, si è giunti alla campagna referendaria sulla riforma costituzionale, messo da parte il progetto di rafforzamento della comunità online del Pd senza che esso fosse sostituito da un altro tipo di ecosistema digitale in grado di gestire la comunicazione, il paradigma «tutti per uno» si era ormai rovesciato. La campagna del «Sì» al referendum diventava, purtroppo, un «uno contro tutti» anche online, che riproponeva gli stessi errori descritti a proposito delle politiche del 2013. Infatti, dal momento che la campagna per il referendum aveva aggregato attorno al «No» alla riforma costituzionale i soggetti politici e sociali che avevano un conto in sospeso con il Pd ed erano all’opposizione del governo e dello stesso Pd, lo squilibrio di forze online era tale che l’unico approccio logico avrebbe dovuto essere quello di attivare community e influencer in grado di mobilitare volontari ed elettori online, come l’esperienza della community aveva insegnato. Invece, la comunicazione del «Sì» sulla rete si limitava alla «propaganda» svolta da alcuni profili Facebook e Twitter, che inevitabilmente erano travolti dal numero e dalla quantità degli avversari
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Ogni singolo post subiva così centinaia di commenti negativi, non solo da parte di troll e profili fake organizzati, ma anche da utenti comuni, sostenitori del «No» alla riforma. Tutto ciò, inevitabilmente, non faceva altro che aumentare sulla rete il senso di accerchiamento e di scoramento delle community pro-riforma. Le pagine Facebook per il «No», al contrario, non solo erano superiori in numero e quindi producevano molte più interazioni con i propri follower, ma erano in grado di attivare molteplici e diversificate comunità online, proprio perché queste ultime erano distribuite progressivamente in molte più pagine, con la capillarità tipica delle reti. A tal proposito, abbiamo già analizzato, grazie allo studio di Walter Quattrociocchi, quanto abbia inciso la polarizzazione proprio durante la campagna del referendum costituzionale, dove le opinioni preconcette sono uscite rafforzate dal meccanismo di autoconferma all’interno delle diverse camere dell’eco. Dal mio punto di vista, quindi, non è stato lo squilibrio di forze il problema, come non lo era stato alle europee del 2014 dove il Pd comunque aveva gareggiato da solo contro tutte le altre forze politiche, piuttosto, come abbiamo visto, il differente approccio online che ha fatto emergere contenuti differenti. Non a caso la comunicazione sui media mainstream, soprattutto nei duelli televisivi, legata allo specifico talento comunicativo di Renzi, è stata molto efficace.
Non avendo trovato corrispondenza in una comunità digitale in grado di riprendere quei contenuti sulla rete, adattandoli e utilizzandoli per convincere elettori e indecisi,l’effetto di quello sforzo comunicativo sul web è stato quasi impercettibile.Contemporaneamente, la coalizione eterogenea delle community del «No» ha potuto gestire in tranquillità l’esposizione dei contenuti e settare l’agenda comunicativa della rete, sovvertendo la comunicazione tradizionale e istituzionale dei sostenitori del «Sì» sui media tradizionali. Non è scopo di questo libro indagare le ragioni della sconfitta al referendum, che hanno motivazioni politiche e sociali varie e complesse, che in parte l’indagine Ipsos del 5 dicembre 2016 ha spiegato con dovizia di dati e analisi. Mi limito a condividere l’idea largamente diffusa che la rete abbia giocato un ruolo determinante nella vittoria del «No» al referendum. Per concludere, ritornando all’argomento di questi due ultimi paragrafi, la Pd community, seppur in fase ancora sperimentale, ha avuto il merito di giocare un ruolo importante nelle europee 2014, soprattutto nell’immaginare una nuova struttura politica, sia dal punto di vista della comunicazione, che da quello dell’organizzazione. Se infatti, come abbiamo visto, i nuovi strumenti della tecnologia non devono farci considerare superati i corpi intermedi, è tuttavia necessario dare avvio a un processo di riforma delle organizzazioni politiche per adattarle alle nuove esigenze e possibilità offerte dal digitale.
Fonte: linkiesta.it