Se la sinistra resta senza un popolo…

Se la sinistra resta senza un popolo…

Nel 1977 al comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Modena per ascoltare Enrico Berlinguer c’erano 500.000 persone. Nel 2017 per la chiusura della Festa Nazionale a Imola si sono riuniti sotto il palco di Matteo Renzi 3.000 affezionati. Nel mezzo, la fine di un mondo e la mancata nascita di un altro.

Due sabati fa sono andato alla Festa Democratica della mia città (Udine) per ascoltare un dibattito tra l’ex presidente della Regione, l’autonomista Sergio Cecotti e il possibile candidato del centrosinistra, il PD Enzo Martines.

Il dibattito è stato interessante e a tratti scoppiettante. Cecotti attaccava, Martines sapeva ribattere. Una certa alternanza di programma, politica e colpi bassi (in un dibattito ci vogliono) e – tutto sommato – un piacevole momento di politica dal vero. Per pochi intimi. Intendiamoci, la stanza non era vuota, circa 50 persone presenti, ma erano tutti “addetti ai lavori”, forse per l’80% dirigenti, funzionari o eletti del PD.

Il problema non è che “la città non risponde”. Il problema è che ormai il PD non ci prova neppure più: organizzare una “festa” in una zona totalmente fuori da ogni passaggio casuale, all’interno dei confini dell’ex ospedale psichiatrico (scelta quanto mai freudiana) è da suicidio. Ma questo 2017 potrebbe passare alla storia come la pietra tombale delle grandi feste popolari di partito che – dal 1945 in poi – hanno avuto nelle Feste dell’Unità il loro momento più alto. Certo, c’era la democristiana Festa dell’Amicizia, la cui prima edizione nazionale si tenne nel 1977 dalle mie parti – a Palmanova – e fu chiusa da un comizio del segretario Benigno Zaccagnini; c’era la Festa dell’Avanti per il PSI, quella del Secolo per il MSI… Tutte bene o male a fine estate e con i loro dibattiti fintamente informali e il comizione finale del leader di turno segnavano la fine dell’estate (e talvolta dei governi balneari) e l’inizio della politica d’autunno.

Intendiamoci, nessuno pensa che il passato possa ritornare (ahimè) e quelle feste sono un’immagine in bianco e nero, remota e irripetibile. Chi scrive ricorda ancora i 3 giorni passati alla Festa Nazionale dell’Unità di Modena del 1990 (l’ultima del PCI), dove ci fu un concerto niente meno che di David Bowie e poi dibattiti con Pierre Maurois, Max Gallo, Raul Alfonsin Alexander Dubcek, Borislaw Geremek…

Che cosa leggiamo oggi? Che a Bologna nessuno va ad ascoltare il sindaco (a Bologna!). Che a Modena (a Modena!) per il ministro Poletti sono solo in 15, che a Genova (a Genova!) non ci sono volontari e quindi si decide di attivare un’alternanza scuola-lavoro con i ragazzi di un istituto professionale messi a grigliare costa e salsiccia come “progetto di valore formativo”. E su tutto il programma della Festa Nazionale di Imola, una “all-stars” totalmente renziana: nessun ospite dall’estero, nessun tentativo di approfondire con voci plurali i problemi sul tappeto, ma un format del tipo “3-4 fedelissimi e uno un po’ critico”. E, mi chiedo, perché mai una persona normale dovrebbe prendere il treno per andare ad ascoltare un monologo di Matteo Orfini (che non è certo Carmelo Bene), oppure Ettore Rosato che parla di legge elettorale (e che vuoi che dica, povero caro), un dialogo Pisapia-Martina (presumo con abbraccio finale), per non parlare poi di Matteo Richetti che ci racconta “i 1000 giorni” (in sfigata competizione con Arthur Schlesinger Jr. autore del monumentale I Mille Giorni di JFK) o l’evento clou dell’ultima giornata: un “dibattito” sull’Europa con: Sandro Gozi, Simona Bonafè, Pina Picierno, Ettore Rosato, Patrizia Toia, Luigi Zanda. Chissà che sottili analisi, che arditi progetti, che eccitanti riflessioni verranno da un tale dream team.

Il punto è proprio questo: il principale partito del (fu) centrosinistra da due anni è totalmente ripiegato su se stesso: nel 2016 tutte le feste furono dedicate alla “guerra civile fredda” di BastaunSì (versione renziana della napoleonica Campagna di Russia) e nel 2017 alla Mistica della Golden Age di Matteo, infaticabile presentatore del suo libro ovunque e comunque. E nel frattempo, spariscono voti, iscritti, volontari, militanti, simpatizzanti.

Certo, oggi viviamo un tempo in cui praticamente chiunque può votare chiunque: il voto “di classe”, ideologico o di insediamento quasi non esiste più, la volatilità è altissima e il sistema partitico totalmente destrutturato: le elezioni le vinci non perché hai radici nella società, ma perché ci sono leader capaci di interpretare i sogni e gli umori dei cittadini e sul territorio una rete di sindaci-cacicchi che un po’ per stima, un po’ per clientela, qualche voto te lo tirano vicino. Passione civile zero o quasi, partecipazione disinteressata zero o quasi.

E quindi nulla esclude che il PD – oggi dato al 26-27% di media – nel 2018 possa prendere il 35% così come il 19 e in fondo era quello l’intrinseco obiettivo della riforma costituzionale no? Il passaggio da una democrazia mediata e dei corpi intermedi a una leaderistica e verticistica. Ma il tema vero è: può esistere una sinistra senza popolo? Perché quello che è consentito e possibile al M5S (con la sua farsa delle primarie online e i suoi parlamentari legittimati da 15 like) o al partito padronale di Berlusconi non è consentito alle forze di sinistra, che oggi sono tutte più o meno prigioniere nella gabbia di ghiaccio delle proprie contraddizioni, della propria lontananza dal comune sentire, del proprio politicismo o della propria assenza di passione civile.

La sinistra nasce non tanto per formulare astratte politiche riformiste (per quelle era sufficiente il Dispotismo Illuminato di Federico di Prussia o di Giuseppe II), quanto per consentire l’accesso alla rappresentanza dei ceti popolari, per dare non solo risposta, ma voce e forza al bisogno ancestrale di uguaglianza e di solidarietà umana. Se non ne è capace, se non ne ha la forza o la volontà, non è un problema solo per i suoi gruppi dirigenti, ma per tutti, anche di chi vota a destra, che lo sappiano o no…

Marco Cucchini | Poli@rchia (c)

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