Usa, la dottrina Trump vista dal teorico del soft power

Usa, la dottrina Trump vista dal teorico del soft power

Gli obiettivi del recente (e lungo) tour asiatico di Donald Trump erano molteplici. In particolare, il presidente americano ha cercato di muoversi su due fronti complementari. Da una parte, ha tentato di ricostituire il classico asse filo-statunitense in Estremo Oriente, rinsaldando i rapporti tanto con il Giappone quanto – soprattutto – con la Corea del Sud, con cui, da alcuni mesi, le relazioni non sono idilliache: sul piano commerciale, Trump ha accusato i sudcoreani di concorrenza sleale, mentre su quello geopolitico ha ripetutamente criticato il presidente Moon Jae-in per una eccessiva arrendevolezza verso il regime di Pyongyang. Dall’altra parte, un elemento chiave del viaggio era quello di convincere la Cina a ritirare finalmente il suo appoggio (politico ed economico) nei confronti della Corea del Nord. Un obiettivo che – sembrerebbe – Trump non è riuscito a centrare più di tanto.

PROBLEMI DI SOFT POWER. Alla luce di tutto ciò, il tour asiatico ha mostrato con evidenza le contraddizioni e i problemi della politica estera complessiva portata avanti dal magnate. «I sondaggi mostrano che il soft power statunitense è diminuito con la presidenza Trump. D’altronde, l’America First non è uno slogan che è stato ideato per conquistare i cuori e le menti degli altri popoli», dice a Lettera43.it Joseph Nye. Politologo harvardiano e membro della Commissione Trilaterale, Nye ha ricoperto vari ruoli negli Anni 90 all’interno dell’amministrazione Clinton, e ha acquisito fama la sua definizione del concetto di soft power, con cui designa quell’attrattività ideologica e valoriale che la cultura americana eserciterebbe sul mondo e che permetterebbe agli Stati Uniti di continuare a giocare un ruolo egemonico nei prossimi decenni, senza ricorrere all’uso costante delle armi (hard power). Nel 2014, Nye è stato inoltre nominato membro del Foreign Affairs Policy Board dall’allora segretario di Stato, John Kerry. Da sempre vicino al Partito Democratico, il politologo è convinto che gli Stati Uniti debbano continuare a mantenere una forte presenza sullo scacchiere internazionale, evitando di abdicare al proprio ruolo di leadership globale.

Anche per questo, Nye non ha mai gradito troppo l’isolazionismo di Trump. Non a caso, alle ultime elezioni, appoggiava Hillary Clinton, temendo l’imprevedibilità del candidato repubblicano e l’autoreferenzialità del suo slogan America First. Una posizione che mantiene tutt’ora. Eppure, nonostante un certo scetticismo, Nye apprezza il siluramento di alcuni trumpiani ortodossi dall’amministrazione (Steve Bannon in testa), per quanto ciò non basti a rassicurarlo soprattutto sul fronte orientale. «Trump sta cercando di far sì che la Cina risolva il suo problema con la Nord Corea. Tuttavia è improbabile che ciò accada. Dopo che questo auspicio fallirà, Trump adotterà probabilmente un approccio più duro sulla questione delle relazioni commerciali con Pechino», dice Nye. «In parte, questa scelta potrebbe avere una sua giustificazione, perché la Cina non esercita la vera reciprocità. Il punto è che c’è il rischio di una reazione eccessiva rispetto al surplus cinese». Insomma, secondo il politologo, Trump potrebbe presto tornare alla sua vecchia retorica anti-cinese, quando accusava Pechino di concorrenza sleale, minacciando addirittura di avviare una guerra commerciale a suon di dazi.

SPINE NORDCOREANE. Una situazione tesa, che non aiuterebbe a risolvere la sempre più spinosa crisi nordcoreana. La quale difatti non accenna a placarsi. «Per quanto riguarda lo scontro tra Washington e Pyongyang, penso ci sia una probabilità minima che possa scoppiare un conflitto», dice Nye. «Ritengo inoltre che ci siano scarse possibilità che la Cina riesca effettivamente ad arginare Kim Jong-un. L’ipotesi più probabile, a mio giudizio, è che la risposta a Pyongyang possa fondarsi sulla deterrenza e il contenimento». Una prospettiva da Guerra Fredda, insomma. E uno stallo da cui sembra assai difficile uscire. Almeno nel breve termine. E d’altronde, in questo scenario, non è neppure ben chiaro dove si collochino i rapporti tra la Casa Bianca e il Cremlino: «Sulla Russia, è difficile discernere la politica di Trump: anche perché ci sono vari ostacoli sorti a causa dell’intromissione di Putin nelle elezioni americane del 2016». E anche sull’Europa la situazione non sembra esattamente chiara. «Paradossalmente», sostiene Nye, «Trump potrebbe aiutare i Paesi dell’Unione Europea a mettersi d’accordo e ad agire insieme, per quanto ciò possa risultare più vero per gli stati occidentali che per quelli orientali».

ORIZZONTE 2020. Il triangolo tra America, Cina e Russia sulla questione coreana resta in una posizione nebulosa: se Trump, da una parte, sembrerebbe premere per un approccio più duro, dall’altra Vladimir Putin e Xi Jinping continuano a invocare la soluzione diplomatica. Il tutto non avvantaggia il presidente americano che si ritrova con diversi problemi di politica interna. Non soltanto i guai dello scandalo Russiagate, ma pure un Partito Democratico che, con le vittorie alle elezioni governatoriali di novembre, sembra aver iniziato a rialzare la testa. Anche se, forse, trarre delle conclusioni può rivelarsi prematuro. A questo proposito, secondo Nye, «i repubblicani sono stati danneggiati da Trump, come mostrano le elezioni governatoriali del 2017. Ma la base repubblicana lo sostiene ancora. Nel caso i democratici si spostassero troppo a sinistra o andassero a creare un partito indipendente, Trump potrebbe essere rieletto nel 2020 con il 36% dei voti». Il futuro resta quindi incerto. E non è detto che, nonostante un’azione amministrativa non proprio brillante, il fulvo presidente, alla fine, non riesca a farsi rieleggere.

Fonte: lettera43.it | Autore: Stefano Graziosi

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