Il voto di midterm negli Usa. Le consultazioni nell’Est Europa anti-Ue. Quelle nella mezzaluna sciita all’ombra dell’Iran. Fino al test per l’asse Haftar-Egitto. Ecco gli appuntamenti del nuovo anno.
Dopo Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Usa, nel 2018 sarà l’Italia a dover fare i conti con lo spauracchio di uno stravolgimento politico che ha messo alla prova, e spesso in crisi, i partiti tradizionali occidentali. Ma il 4 marzo, giorno annunciato per le nostre elezioni, non sarà l’unica data da tenere d’occhio. Se è vero che gli appuntamenti elettorali più importanti sono alle spalle (con esiti contrastanti: Brexit e Trump nel 2016, Macron e la conferma di Merkel nel 2017), nel 2018 ci saranno consultazioni chiave per gli equilibri globali, dagli Stati Uniti al Medio Oriente. Ecco una breve guida per orientarsi.
1. Usa: elezioni di midterm fondamentali per il Russiagate
A due anni dalla vittoria di Donald Trump, gli Stati Uniti tornano alle urne per rinnovare i 435 membri della Camera dei Rappresentanti e 34 dei 100 senatori. Sono le elezioni di midterm, che cadono regolarmente di novembre due anni dopo l’elezione del presidente. In questo caso, rischiano di essere decisive per le sorti dello stesso capo dello Stato, inseguito dallo scandalo del cosiddetto Russiagate. Se mai l’inchiesta sulle interferenze di Mosca nella campagna americana del 2016 arriverà a provare la complicità di Trump con il Cremlino (di questo è sospettato il tycoon), sarà proprio la composizione del Congresso a fare la differenza.
LA MAGGIORANZA È UNA GARANZIA. La procedura di impeachment, la strada per portare alla caduta di un presidente, viene votata dal Congresso e attualmente sia Camera che Senato sono a maggioranza repubblicana. Finché il tycoon potrà godere dell’appoggio del parlamento, è praticamente impossibile che coloro che lo vorrebbero decaduto la spuntino. La situazione potrebbe tuttavia cambiare se, con il rinnovo delle Camere a novembre, il Gop perdesse la maggioranza assoluta. I democratici potrebbero in questo caso appellarsi alle indagini del procuratore speciale Robert Mueller (sempre che queste arrivino a risultati certi) e avviare la procedura di impeachment.
2. Europa dell’Est: pericolo nazionalismi
Per l’Europa il 2017 è stato l’anno della frenata dei populismi, che dopo la Brexit e l’ascesa di movimenti di destra quali il Front National francese non sono riusciti a sfondare nelle elezioni decisive (sebbene dappertutto si siano rinforzati). Il voto in Olanda, Francia e Germania ha riportato il Vecchio continente a una situazione di relativa stabilità per quel che riguarda la tenuta dell’Unione. Nel 2018, però, la minaccia potrebbe provenire dall’Est. A dare un’indicazione del sentimento politico sarà per prima la Repubblica Ceca, che il 12 e 13 gennaio dovrà scegliere il suo nuovo presidente. In aprile sarà la volta del parlamento dell’Ungheria. Il Paese, sotto la guida del primo ministro Viktor Orban, è già da tempo in rotta di collisione con Bruxelles, così come lo è la sempre più nazionalista Polonia del primo ministro Jarosław Kaczyński.
IN CAUSA CON L’UE. Sia Budapest che Varsavia sono state portate dalla Commissione europea davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione per il rifiuto ad accettare il sistema di ripartizione delle quote di migranti. Per la Polonia, inoltre, la Commissione ha attivato per la prima volta nella storia comunitaria l’arma atomica dell’articolo 7 dei Trattati, aprendo la strada a pesanti sanzioni per il Paese, fino anche alla perdita del diritto di voto in seno al Consiglio. Né Orban né Kaczyński sembrano intenzionati a fare passi indietro. Il modo in cui Bruxelles si comporterà con quei Paesi che stanno apertamente violando le norme e i valori liberali cui dovrebbero attenersi tutti gli Stati membri potrebbe determinare il futuro dell’Unione quanto la Brexit.
3. Russia: Putin verso la riconferma fino al 2024
Nel caso della Russia, la questione non sarà chi vincerà le elezioni, ma come le vincerà. Alle Presidenziali del 18 marzo la riconferma di Vladimir Putin appare scontata (una sua sconfitta sarebbe paragonabile per importanza alla vittoria di Trump nel 2016, e avrebbe forse conseguenze ancor più imprevedibili). Considerato l’attuale tasso di gradimento dell’ex agente del Kgb, vicino all’80%, tutto lascia pensare che otterrà il suo quarto mandato con una larga vittoria. Putin è già stato al potere come presidente dal 2000 al 2008, come primo ministro dal 2008 al 2012 (con il presidente-fantoccio Dmitrij Medvedev) e di nuovo come capo dello Stato dal 2012 al 2018. Una sua riconferma lo porterebbe a governare fino al 2024, per un totale di 24 anni. Restano, in ogni caso, alcune questioni aperte.
IL TIMORE DI ALTRE PROTESTE. La prima riguarda il principale leader dell’opposizione, Alexey Navalny, escluso d’ufficio dalla corsa elettorale a causa di una condanna per un caso di frode ed estromesso dalla Commissione elettorale centrale all’unanimità. L’influente blogger, guardato con attenzione dell’Europa, ha chiesto ai suoi sostenitori di boicottare le urne: la paura per Putin è quella di una nuova ondata di proteste di piazza, che potrebbe spingere Usa e Ue a isolare ulteriormente la Russia. Un’altra domanda è chi sceglierà il presidente come suo primo ministro. Come suggerisce Max de Haldevang della rivista Quartz, «scegliere un personaggio di spicco potrebbe essere un modo per testare un valido successore; confermare Medvedev sarebbe un modo per mantenere lo status quo; optare per un mister nessuno evidenzierebbe la sua aspirazione a lanciare un altro fedelissimo al posto del criticato Medvedev».
4. Libia ed Egitto: Haftar si rafforza e “tifa” al Sisi
La Libia va al voto per la terza volta dalla rivoluzione contro Gheddafi del 2011. Data la frammentazione politica del Paese, non sarà facile organizzare le elezioni, non sarà facile evitare brogli, ma soprattutto non sarà facile far rispettare il risultato alle diverse fazioni in conflitto. Sempre che, naturalmente, il voto non venga annullato prima dalle incolmabili distanze tra le due forze principali del Paese: il governo di Tripoli di Fāyez al Sarraj, appoggiato dall’Onu, e quello di Tobruk del generale Khalifa Haftar, sostenuto principalmente dall’Egitto. Entrambi dichiarano di volere le elezioni il prima possibile, addirittura in primavera (come proposto dall’inviato delle Nazioni Unite Ghassan Salame). Ma il potere effettivo del primo è assai limitato, mentre il secondo non riconosce l’autorità delle Nazioni Unite e potrebbe rifiutarsi all’ultimo minuto di aprire i seggi sul territorio da lui controllato (la Cirenaica).
UNA LEADERSHIP CONTROVERSA. Anche se alla fine si dovesse arrivare a un accordo, c’è sempre il rischio che le elezioni si trasformino in un boomerang. L’ultima volta che si sono tenute, nel 2014, il risultato non fu accettato dalle fazioni sconfitte, con un conseguente ampliamento delle divisioni e un’escalation delle violenze. Nel 2018, Haftar potrebbe beneficiare anche delle elezioni presidenziali previste nel confinante Egitto. Se tutto andrà secondo previsioni, a trionfare sarà nuovamente il presidente Abd Fatah al Sisi, che dell’ex generale di Gheddafi è il primo sponsor. Al Sisi è stato eletto nel 2014 con circa il 96% dei voti, un risultato che ha alimentato sospetti da più parti. Le probabilità di successo, in ogni caso, sono ancora dalla sua, nonostante abbia fallito nella promessa di spingere il Paese verso il boom economico, sia accusato di violazioni dei diritti umani e costringa gli egiziani a vivere in Stato d’emergenza dall’aprile 2016.
5. Iraq e Libano: l’Iran cerca di rinsaldare l’asse sciita
Maggio sarà un mese da tenere d’occhio per osservare se e come stanno cambiando gli equilibri di potere in Medio Oriente, e in particolare per capire fino a che punto l’asse sciita, uscito vittorioso dalla guerra in Siria, si sta rafforzando. Il 6 maggio il Libano terrà le sue prime elezioni legislative da qui a un decennio. Il voto potrebbe trasformare le politiche di un Paese direttamente condizionato dallo scontro tra Arabia Saudita e Iran e che è da sempre luogo per eccellenza della convivenza tra sciiti e sunniti così come la vittima di questo conflitto macro-regionale. Dal 2009, il paesaggio politico libanese è cambiato sensibilmente. Lo schieramento del primo ministro Saad Hariri, pro-occidentale e appoggiato da Riad, si è spaccato. Per l’ultimo anno ha portato avanti un governo di larghe intese con il movimento sciita filo-iraniano Hezbollah, osteggiato dai suoi alleati sauditi. Una linea che re Salman, ma soprattutto il principe ereditario Mohammad Bin Salman, nei fatti al potere, non ha tollerato a causa della sempre maggior influenza di Teheran nel Paese del Levante. Per questo, a novembre Hariri è stato richiamato nella capitale araba, dove ha attaccato Hezbollah e l’Iran e dato le sue dimissioni in segno di protesta (per poi ritirarle).
ABADI CERCA LA MAGGIORANZA. Il 12 maggio toccherà invece ai cittadini dell’Iraq, uno dei Paesi più lacerati dalla divisione sciiti-sunniti, scegliere il nuovo parlamento. Il primo ministro Haider al Abadi, che ha ottenuto due vittorie significative sconfiggendo lo Stato islamico e annullando nei fatti il referendum per l’indipendenza del Kurdistan, dovrebbe riuscire ad assicurarsi la maggioranza. Dovrà però affrontare le manovre di Teheran, che sta cercando di riunire tutte le fazioni pro-iraniane nel tentativo di riportare al potere il fedele ex premier Nouri al Maliki. Per gli Stati Uniti, che nel 2018 saranno in Iraq da 15 anni, la permanenza di Abadi al potere rappresenta l’unica speranza di contenere l’Iran.
Autore: Andrea Prada Bianchi | Fonte: lettera43.it