Passiamo la vita a scattarci selfie con gli smartphone. Immagini di dubbio gusto, nel migliore dei casi, da pubblicare immediatamente sui nostri social network. Dopotutto molti italiani sognano di diventare un influencer di successo, o quantomeno un conosciuto fashion blogger. È il segno dei tempi. Ormai non c’è più pasto alla moda che non sia un brunch o un light dinner. Ma i più spiantati possono mangiare al ristorante ricorrendo alla formula dell’all you can eat. Roba da vacanze all inclusive, per intenderci. Intanto anche in ufficio sembra che non si possa fare a meno di conference call e coffee break. Se persino le riforme del lavoro ormai si chiamano Jobs Act, è il segno che stiamo davvero uccidendo la lingua di Dante.
Non è dato sapere se il Sommo Poeta si stia rivoltando nel sepolcro ravennate che ne accoglie le spoglie. Di certo c’è che l’italiano rischia di fare una brutta fine. È un patrimonio storico e culturale immenso, che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri antenati e stiamo consegnando senza troppo riguardo alle nuove generazioni. Proprio in questi giorni la questione è approdata in Parlamento (e non è neppure la prima volta). «Sono ormai anni che studiosi, esperti e istituzioni come l’accademia della Crusca denunciano il progressivo scadimento del valore attribuito alla lingua italiana», scrive in un’interpellanza appena depositata a Montecitorio il deputato Francesco Lollobrigida. Con buona pace dei modernisti, il tema è centrale. L’italiano è il simbolo del Paese e la nostra immagine nel mondo. Uno dei principali elementi dell’unità nazionale. Ma è anche un tesoro che in molti ci invidiano. La nostra lingua è il quarto idioma più studiato del pianeta. «Un bene comune a tutti i cittadini italiani che hanno di conseguenza il compito di custodirlo e di farlo conoscere», scrive il parlamentare. Proteggere l’italiano deve essere la nostra mission, insomma. O meglio, il nostro obiettivo.
Secondo alcuni studiosi, proseguendo di questo passo la lingua di Dante potrebbe diluirsi fino alla sua progressiva scomparsa, che qualcuno ha previsto tra circa ottanta anni
Il deputato di Fratelli d’Italia lancia l’allarme. Da troppi anni abbiamo aperto il nostro vocabolario a termini stranieri, principalmente inglesi e di diretta emanazione del linguaggio digitale. «Una prassi comunicativa che lungi dall’arricchire il patrimonio linguistico italiano lo immiserisce e lo mortifica». Un dato su tutti. Secondo le stime riportate nel documento parlamentare, ormai tra circa 800mila lemmi ed accezioni contenuti nel dizionario della Treccani, quasi 9mila sono gli anglicismi. È un fenomeno in netta crescita. In nemmeno vent’anni il numero di parole inglesi entrate a pieno titolo nella lingua italiana è aumentato del 773 per cento. Ecco la vera invasione straniera sfuggita a Matteo Salvini. Ovviamente non siamo gli unici a subire le conseguenze del nuovo linguaggio globalizzato. «In Francia e Spagna lo hanno capito – scrive Lollobrigida – e hanno adottato provvedimento. In Italia ciò non è avvenuto». Il deputato si riferisce alla legge Toubon del 1994, che ha reso obbligatorio l’uso della lingua francese nelle pubblicazioni del governo, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, in ogni tipologia di contratto, nei servizi, negli scambi, nelle scuole statali. In Italia evidentemente siamo ancora indietro. E forse non è un caso se persino i provvedimenti approvati in Parlamento vengono spesso presentati con accattivanti titoli anglosassoni (dalla legge sulla green economy al decreto per l’election day). I pericoli sono evidenti. Il parlamentare accusa le derive anglofile, denuncia il rischio di perdere «la bellezza di una lingua complessa e ricca come l’italiano». E non è l’unico a pensarla così. Secondo alcuni studiosi proseguendo di questo passo la lingua di Dante potrebbe diluirsi fino alla sua progressiva scomparsa, che qualcuno ha già previsto nell’arco di ottanta anni. Ma siamo ancora in tempo per correre ai ripari. Salvare l’italiano è un obiettivo che ci riguarda tutti. Una battaglia linguistica per rispettare i nostri antenati, ma soprattutto le nuove generazioni di Millennials. Pardon, i più giovani.
Fonte: linkiesta.it