Sembrava un vaso di coccio, si sta rivelando capace di farsi rimbalzare addosso qualsiasi difficoltà. Celebrato dal Tg1, in giro tra sfollati e disagiati, in visita dal Papa il premier ormai si sta costruendo un altro futuro. Per il momento in cui Salvini avrà finito di triturare Di Maio.
Non è detto che debba accadere, ma per l’intanto Conte gira tra i bambini di Forcella e nel vasto mondo di Sant’Egidio, tra gli sfollati e le vecchiette, sempre seguito dal casaleggino Dario Adamo che lo riprende o lo fotografa, ha raddoppiato il ritmo dei post Instagram (51 nell’ultimo mese, media di 36) e insomma s’affina ogni giorno a diventare novello interprete del concetto del «mediatore rivoluzionario», caro a Davide Casaleggio che ha avuto un ruolo non trascurabile nel collocarlo dove è.
Nell’immediato è l’unico argine al ministro dell’Interno, come al Quirinale sanno pure gli arazzi, e in prospettiva il meglio titolato a contenderne la altrimenti straripante leadership, Conte è persino più di gomma del vicepremier grillino: capace pure di sbagliare qualche congiuntivo – una volta addirittura parlando all’Accademia della Crusca – ma almeno per emozione, lui. L’affilata previsione sulla successione ha cominciato a circolare a Palazzo da qualche settimana, ben prima che il premier riuscisse a portare a casa l’indorata pillola del compromesso sulla manovra: quindi ha in Bruxelles una conferma, non l’origine. Ed ha in questi giorni la sua apoteosi.
Non solo perché blasonati commentatori riconoscono il suo ruolo di «mediatore», o addirittura «garante» del contratto e del futuro di un governo che senza di lui ormai non potrebbe essere, e anzi non si sa come abbiamo fatto a pensarlo. C’è soprattutto il premier, a fornire esempi attraverso una macchina comunicativa ormai rodata. Il tweet del giorno di Santo Stefano, dopo le scosse di terremoto nel catanese, era in questo senso di una perfezione assoluta: «Sono vicino», «seguo», «ringrazio», «auguro». Quattro verbi-cardine spalmati su 140 caratteri da manuale, proprio mentre Salvini inciampava tra fette spalmate di Nutella. Subito prima, alla Vigilia – come informava apposito servizio del Tg1 all’ora di pranzo – Conte si era recato, in una sola volta: a far visita ai «bambini disabili e senza famiglia» della comunità “Nido del focolare” di Cerchiara, nella Casa Famiglia della Comunità Giovanni XXIII a Campli, nella mensa sociale della piccola opera Caritas di Giulianova». Una visita «privata» in Abruzzo, specificava più volte il servizio: privata, ma con telecamere al seguito.
Anche privata, del resto, era stata la visita al Papa di metà dicembre. Quarantacinque minuti nella Terza Loggia del palazzo Apostolico, senza delegazione ufficiale e ministri. Quasi un unicum, per un premier italiano. Evento trattato dal Vaticano nell’understatement più totale – coi cronisti avvertiti venti minuti prima dell’evento e uno scarno comunicato successivo – e invece divulgato dal premier ai quattro venti. Con un impagabile post su Facebook, nel quale parlava di un «lungo colloquio privato» e «rispettivo impegno che stiamo portando avanti per realizzare, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, un ampio disegno riformatore della comunità in cui operiamo». Ciascuno nel suo ambito: Conte, e il Papa. Poco prima, del resto, il premier aveva onorato San Francesco nel nome del catto-grillismo più puro.
Ma è alla fine questa «feroce determinazione» il segreto del suo successo: la stessa che raccomandava ai suoi studenti durante il primo giorno di lezione, all’università di Firenze. La stessa che ha applicato a sé studiando fino a notte nella stanza da premier cose di cui prima ignorava quasi tutto, quando pure Casalino se ne andava via.
Lo stupore, del resto, è passato per tutti. All’inizio, il portavoce e regista della comunicazione grillina mostrava i faldoni orgoglioso, quasi commosso. Col fare di una puerpera coi pannolini del neonato diceva: «Li vede questi appunti? Si è preparato l’intervento da solo». Poi ha smesso. Mentre Conte passava dal perdersi i fogli sul banco del governo a Montecitorio e domandare a Di Maio l’impensabile «questo posso dirlo?» all’affrontare da solo il Senato per illustrare la manovra post trattativa con l’Unione europea. Perfetto interprete della convinzione, tutta casaleggina, che «è l’istituzione che fa il ruolo». Lo fa, lo fa. Anche per un giurista nato a Volturara Appula, cresciuto a San Giovanni Rotondo nella devozione di Padre Pio, svezzato ai segreti della romanità nella preziosa Villa Nazareth, collegio frequentato negli anni dell’università e di cui ha poi curato per un decennio i rapporti con le università straniere (lì peraltro incontrò per la prima volta Papa Bergoglio, nel 2016).
Studioso, devoto, instancabile d’una gentilezza che fiacca, annienta.
È anche per questa via che Conte ha passato lo snodo. Dall’aspirazionale al contenitivo: dal «riuscirò a durare a lungo», al «durerò massimo cinque anni, non un giorno di più»; dal «se M5S mi propone una candidatura ci penserò» a «il mio posto non lo lascio». Certe ritmiche, in questo senso, sono piuttosto lineari. Nelle sue ventiquattro interviste da premier (record al Corriere della Sera con otto, recordman Massimo Franco con cinque), c’è un punto preciso dell’autunno in cui, più o meno all’unisono, si smette di chiedergli quale misura venga prima tra reddito di cittadinanza e quota cento, oppure se si senta a disagio stretto come un vaso di coccio tra le esuberanze di Salvini e Di Maio. E gli si comincia invece a domandare: che farà dopo, quando sarà finita l’esperienza a Palazzo Chigi? Tra tutte le risposte di prammatica, nelle quali anche per scongiurare il tragico effetto Monti Conte giura che il suo impegno è e sarà solo l’attuale incarico, la più illuminante è quella concessa al suo intervistatore preferito (Franco, appunto) appena conclusa la trattativa sulla manovra. È pronto a cedere Palazzo Chigi a Matteo Salvini dopo le elezioni europee? «Onestamente no, non sono pronto a questo passaggio delle consegne», è la risposta.
Ecco: no, non è pronto. Sta bene dove sta. In prospettiva, sembra collocarsi nella visuale andreottiana del tirare a campare. Andando in visita alla Casa Bianca tra i complimenti del presidente Donald Trump, a fare il baciamano alla cancelliera Angela Merkel con la quale pare parli in tedesco A consigliare ristoranti a Emmanuel Macron. Gli piace. Come dargli torto? Sta in fondo anche qui, nella normalità, una delle leve della sua spiccata popolarità (60 per cento) che pure si coniuga con un uso limitato della televisione (appare nei tg, non nei talk show: alla Gentiloni, diciamo). Beppe Grillo, la prima volta che l’ha visto, gli assegnò la parte, o semplicemente la riconobbe: «Ah, tu fra tutti sei quello normale». Anche adesso, del resto, per quanto costruito a tavolino, per quanto lasciato brado solo in rari casi (avvenne ad esempio in settembre, nell’intervista pubblica a Ceglie Messapica, regno natio e incontrastato di Rocco Casalino) Conte esisteva anche prima dell’avventura a Palazzo Chigi. Anche prima che intervistandolo sul Fatto Marco Travaglio annunciasse, manco si trattasse di Greta Garbo: «La prima notizia è che Giuseppe Conte esiste. La seconda è che parla».
Ma è così che la normalità cammina dietro il premier. Lo si è visto quando, in una delle giornate di sua maggior soddisfazione personale, Conte è tornato nella sua Università, a Firenze, Giurisprudenza, e terminata la lectio magistralis si è ritrovato davanti la fila. Decine di studenti che volevano salutarlo. Con ognuno una parola, a ognuno un selfie. «E pensare che prima di diventare presidente del Consiglio non me ne ero fatto nemmeno uno», giurava lui, ormai avvezzo però alle giacche slim fit, e alle cravatte non slentate, al ciuffo sistemato col gel, alle battute che non sa bene come concludere e che restano lì appese. Esempio: «Si dice che si nasca incendiari per morire pompieri, e allora forse io sono alla fine della mia vita». Sguardi assenti, scongiuri.
Messo da parte lo stupore di scoprire, come fece in giugno, che «ai vertici Nato i cellulari erano tutti schermati, noi premier eravamo isolati», Conte si è reso capace di dire senza arrossire frasi come: «Col ministro Salvini non parliamo delle sue scelte lessicali, ma non mi pare una persona indifferente a certi valori». Eccola, infine, la gomma. Una invulnerabilità alle emozioni parecchio esercitata nei giorni di ottobre con lo spread a trecento, le Borse in crisi, il ministro Tria dimezzato, Salvini che dava dell’ubriacone a Juncker, Di Maio pronto ad accusare Moscovici di fare terrorismo. In quei giorni Conte ha estratto il suo quoziente di rimbalzo. Pur continuando ad essere uno che parlava dei litigi tra i due vicepremier in termini di «dialettica bidirezionale», «umori transeunti», «inclinazioni temperamentali», «incrostazioni relazionali» e dell’Europa come di «un progetto molto complesso che si sta dipanando secondo un percorso non lineare».
Nel frattempo, ha continuato a tessere fili anche molto delicati. Come quello del dialogo con il vasto mondo cattolico – difficile viste le posizioni su migranti, politiche fiscali e lotta alla povertà. Incontri con il cardinal Bassetti presidente della Cei, interviste per i cinquant’anni di Avvenire. Soprattutto un lungo colloquio con Famiglia Cristiana, il settimanale dei paolini che aveva dedicato la copertina «Vade Retro» a Salvini. E che invece per Conte ha titolato: «Italiani fidatevi di me». Parlando di un premier che «guarda con estrema attenzione, non semplice interesse elettorale, al mondo cattolico»; spiegando come «anche i cattolici potrebbero trovare in lui un valido punto di riferimento»; chiedendogli addirittura la fattibilità di una «Dc 2.0». Avanti di questo passo, dopo le Europee Conte potrebbe davvero finire a dire a Salvini quel che rispose Andreotti a De Mita nel lontano 1991. Il governo tira a campare? Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.