Nella provincia di Bergamo, vecchio feudo leghista, l’exploit di Salvini alle Europee ha sfiorato il plebiscito: il 51,1% dei consensi, sopra di 30 punti percentuali rispetto al 19,8% del Partito democratico. Un dato quasi moderato rispetto ai picchi di oltre il 65% raggiunti nei microcomuni che popolano il territorio, passato con disinvoltura dalla Lega nordista delle origini a quella nazionale dell’era Salvini. Spostandosi in città, «alta o bassa» che sia, lo scenario cambia. Il Pd si mantiene primo partito, con il 32,64%, tallonato (ma non superato) dalla Lega al 32,4%.
Il ribaltone si fa più chiaro nel voto alle amministrative, dove il primo cittadino dem Giorgio Gori ha surclassato con il 55,45 % dei consensi il concorrente del centrodestra Giacomo Stucchi (38,95 %). Le Europee del 2019 hanno evidenziato un fattore già emerso con le nazionali di un poco più di un anno fa, quando i rapporti di forza fra la Lega e i partner di governo dei Cinque stelle erano ancora sbilanciati a favore dei secondi: uno scollamento profondo fra le inclinazioni di voto dei centri urbani e quello delle province, due mondi che non comunicano e non condividono le stesse sensibilità espresse alle urne.
GUARDA IL VIDEO: Europee: boom di preferenze per Salvini. Poi Berlusconi, Meloni e Calenda
Il caso di Bergamo può fare effetto per lo straniamento fra una provincia accesamente leghista e un centro città che rinnova la sua fiducia a un primo cittadino democratico, oltretutto a capo di una lista appoggiata da movimenti indigesti ai sovranisti come +Europa di Emma Bonino. Ma non è neppure l’esempio più clamoroso di come i centri urbani si stiano distanziando dalle rispettive province, rinsaldando un dualismo nella geografia elettorale italiana: più che fra Nord e Sud, i vecchi estremi delle coordinate politiche nazionali, il divario sembra essere tra la minoranza che vive all’interno dei centri metropolitani e la maggioranza che risiede all’esterno.
Quei 10 punti di distanza tra città e provincia
Limitandosi alle Europee, basta dare uno sguardo ai comuni dove il Pd è riuscito a primeggiare. Tra le prime dieci città per popolazione, sei hanno votato in prevalenza i Dem (Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze) e le restanti quattro si sono orientate sui Cinque stelle (Napoli, Palermo, Catania, Bari). Non c’è traccia della Lega, che pure domina in maniera quasi uniforme i voti complessivi nelle regioni di Nord e Centro Italia. Nel dettaglio dei dem, a Torino-città il Pd viaggia al 33,47% contro il 27,35% guadagnato nella provincia. Un trend simile a quello di Genova (30,05%, contro il 24,04% nell’intera regione Liguria), Bologna (Pd al 40%, anche se in questo caso il primato è esteso anche alla provincia), Firenze (43,7%, idem), Roma (Pd al 30,6%: in provincia è al 26,75% contro una Lega al 29,57%) e ovviamente Milano. Il capoluogo della Lombardia, dove la Lega vola al 43,3% dei consensi, si conferma un enclave per il Partito democratico : 35,97% dei consensi contro il 27,39% del partito di Salvini, nonostante basti fare un salto in provincia per invertire gli equilibri (Lega al 34,12% e Pd al 29,06%). All’esatto opposto, un partito come la Lega tende a crescere più ci si allontana dai grossi centri urbani, fra le periferie e i comuni di piccola dimensione. Nella comune di Padova, tappa di chiusura della campagna del neoeurodeputato democratico Carlo Calenda, il Pd insidia la Lega in testa alle preferenze con il suo 31,87% (il partito di Salvini è al 33,23%). Nel resto della provincia, la Lega esplode al 40% e il Pd si riduce al 20%. La sua metà.
Roberto Biorcio, docente di sociologia e ricerca sociale all’Università Bicocca di Milano, fa notare che il divario tra l’andamento di un partito può raggiungere sbalzi «anche di 10 punti percentuali» fra città e provincia. Vale anche per il Pd e la Lega, ma anche per il «terzo incomodo» uscito in frantumi dall’ultimo voto, i Cinque stelle. Le ragioni? Biorcio individua almeno due elementi, concatenati fra loro. «In primo luogo nei piccoli centri e nelle aree più periferiche abitano persone con più difficoltà economiche – dice – Mentre in qualche modo nei grandi centri abitano famiglie e persone dotate di maggiori risorse economiche. Quindi le prime hanno subito maggiormente la crisi e tendono a votare per forze di rottura contro il “sistema” e i partiti avvertiti come tradizionali». L’esempio si applica bene ad alcune zone geografiche, sopratutto nelle province del Sud Italia, dove il Movimento cinque stelle resta forte e la Lega veleggia ormai sul 20%. Ma suona già più straniante in zone dove i redditi medi viaggiano su valori superiori alla media nazionale. Perché nelle province del Nord-ovest, forte di un Pil pro capite stimato dall’Istat a 35,4mila euro annui, la Lega si inerpica fino e oltre il 65%? In parte incidono le promesse di misure fiscali favorevoli, da sempre attraenti per il target di piccoli imprenditori, artigiani e liberi professionisti che ruota intorno alla Lega.
Le ragioni «identitarie» del voto e la difesa del benessere
In parte, però, il voto a un partito «identitario» come la Lega risponde soprattutto al desiderio di chiusura verso l’estero e alla difesa dello status quo: la «emergenza migratoria», nonostante sia sfumata da anni , viene avvertita come un rischio al proprio benessere economico. «Può sembrara paradossale, ma proprio in regioni ricche e con pochi migranti si tende a chiedere più chiusura – spiega Biorcio – Nel Nord conta l’aspetto di difesa del proprio benessere». Il fenomeno non è esclusivamente italiano. In Germania, il partito di ultradestra Alternativa per la Germania fa incetta di voti nelle regioni dell’Est, appena sfiorate dalla crisi (vera) dei migranti nel 2015. In parallelo, paesi di tradizione liberal come Svezia e Danimarca hanno assistito alla crescita di forze sovraniste nel nome della «difesa del welfare». Il Dansk Folkeparti, partito nazionalista che fa da stampella all’esecutivo di centrodestra di Copenaghen, ha costruito il suo consenso sull’appello a riservare i servizi dello stato sociale ai cittadini autoctoni. Eppure, in nessuno di questi tre casi la destra radicale ha raggiunto proporzioni simili a quelle italiane. Un esempio più calzante arriva, semmai, dalla Francia della alleata per eccellenza di Salvini: Marine Le Pen. Qui la dicotomia tra città e provincia italiana si ripresenta in forma quasi perfetta: la République en marche di Emmanuel Macron sfonda la soglia del 30% a Parigi e viaggia tra il 25 e il 30% in centri come Bordeaux, Lione e Strasburgo. Il Raggruppamento nazionale di Le Pen, erede del Fronte nazionale del padre Jean-Marie, fa incetta soprattutto nelle periferie e nelle province del paese, le stesse che hanno fatto da incubatore della rivolta dei gilet gialli. Uno sfogo improvviso, ma duraturo, delle insofferenze dei cittadini che si sentono dimenticati dalle «élite». E delle loro città.
Fonte: Il Sole 24 Ore | Autore: Alberto Magnani.