Tra pochi minuti il presidente del Consiglio Conte parlerà alla Camera dei Deputati per chiudere una crisi mai realmente aperta. Ancora non si sa cosa dirà – anche se, ormai Conte lo conosciamo, quindi parlerà di tante cose e di nulla in particolare – però una cosa appare certa: rimarrà in piedi e proseguirà il proprio cammino. Caracollando su una mulattiera in groppa a un mulo.
Quella di questi giorni non è una bella pagina e la sensazione è che tutti abbiano torto. Innanzitutto ha torto colui che ha aperto la crisi, Matteo Renzi. Non ha torto perché – in termini assoluti – sia impossibile o improprio aprire una crisi in tempi di emergenza nazionale. Anzi, verrebbe da dire, se non dai uno scossone quando la situazione è drammatica, allora quando mai lo dovresti dare? Però nelle emergenze la crisi si deve aprire e chiudere rapidamente e in modo concordato e l’eventuale cambio di governo deve essere la conseguenza di un negoziato (più o meno sotterraneo) chiaro in ogni suo dettaglio. Per capirci, si è tirato in ballo spesso in questi giorni il caso del governo Churchill, prodotto da un ribaltone parlamentare nel pieno della crisi politica e militare della primavera del 1940; a tale proposito, giova ricordare che il primo ministro Neville Chamberlain non si dimise fino a quando non vi fu un accordo sul nome del successore e che – dal momento delle dimissioni del primo ministro in carica alla nomina del nuovo – passarono poche ore e non vi fu alcun vuoto di potere.
La colpa principale di Matteo Renzi, dunque, non è quella di aver provocato la crisi, ma di averlo fatto in solitaria, con un azzardo. Certo, parliamo di Renzi, cioè di un uomo che non riesce a guardare un governo senza iniziare a chiedersi come fare ad abbatterlo: lo ha fatto sempre, li ha demolititi tutti, compreso il proprio, è fatto così e non c’è rimedio. Però era lecito sperare che l’importante esperienza di governo vissuta in prima persona, la delicatezza della situazione sociosanitaria ed economica e la stessa realizzabilità delle sue smisurate ambizioni lo avrebbero indotto alla cautela. E invece niente, è come il Joker di Christopher Nolan che a un certo punto – ad Harvey Dent che gli chiedeva che piani avesse – risponde “ti sembro davvero il tipo da fare piani? Lo sai cosa sono? Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se… le prendessi!”
Però – se la colpa di Renzi è la crisi al buio scatenata per la propria naturale propensione “a inseguire le macchine” – la colpa di Conte è quella di essere totalmente indifferente ai problemi politici sempre più evidenti sorti attorno a lui. Matteo Renzi, infatti, quando sottolinea l’inconcludenza dell’azione di governo, la sua paralizzante assenza di visione, l’assoluta prevalenza della comunicazione su ogni altro aspetto, la tendenza a non risolvere mai nulla unita a una certa predilezione per le modalità decisionali oscure ha ragione da vendere. Il caso della gestione economica è lampante: prima c’è stata la task force guidata da Vittorio Colao il cui complesso piano di rilancio – elaborato su richiesta di palazzo Chigi – viene cestinato senza neppure leggerlo. Alla task force è seguita la sfilata degli Stati Generali, con al centro sempre e solo il presidente del Consiglio, che ha sentito tutti ed ascoltato nessuno. Poi l’occasione del Recovery Plan – scatola vuota senza idee – la cui sola certezza era la gestione da affidare ad amici del premier.
Intendiamoci, le debolezze del governo non sono tutta colpa di Conte, ma rappresentano lo specchio della povertà di idee e di presenza nella società dei partiti che lo compongono. Tuttavia, in un sistema parlamentare ed in presenza di un governo di coalizione, la formula politica prevale sui personalismi e dunque – come la storia repubblicana insegna – se ci sono difficoltà, normalmente si cambia il premier, quale passaggio necessario per un rilancio della coalizione. Ed è esattamente quello che è avvenuto al tempo della crisi del governo Prodi, quando il cambio di maggioranza – fuori Bertinotti, dentro Mastella – si è accompagnato a un cambio di presidente del Consiglio, con l’ingresso a palazzo Chigi di Massimo D’Alema (altro illustre esponente di Complotta Continua, ma più scaltro di Renzi).
Però Conte non molla. Il solo e unico progetto politico del presidente del Consiglio è la sua permanenza a palazzo Chigi e non importa se questo avviene grazie a Salvini, Renzi o Mastella. Un Sole immobile, con i pianeti che gli ruotano attorno facendogli da corona. Emerge inevitabile il desiderio di citare il celeberrimo Two Faces of Power, articolo pubblicato nel 1962 dai politologi Bachrach e Baratz, che sottolinearono la centralità del processo non decisionale, inteso come il potere di evitare che taluni problemi vengano inseriti nell’agenda decisionale pubblica, da limitarsi a questioni ritenute “sicure”. Tale processo avviene attraverso la manipolazione dei valori dominanti, dei miti, delle istituzioni e delle procedure politiche, oltreché tramite il ricorso a pratiche coercitive o con una cooptazione di élites, ricorrendo a forme di ostruzionismo procedurale utili a scoraggiare i vari tentativi di inserimento di punti sgraditi nell’agenda oppure procrastinando in attesa del calo del “ciclo di attenzione”.
Giuseppe Conte ha sistematicamente e scientificamente praticato la non-decisione, accantonando ogni tema sgradito o potenzialmente divisivo, ma questo ha comportato la paralisi. Per questo una crisi di governo sarebbe stata utile. Per cambiare alcuni ministri (e magari il presidente del Consiglio), ridefinire il perimetro politico e rilanciare l’azione di governo. Nel campo sanitario, economico ma anche istituzionale, visto che c’è la democrazia rappresentativa da rimettere in sicurezza dopo la follia del referendum dello scorso autunno.
Sarebbe servito un rimpasto e un rilancio. Che è esattamente la sola ipotesi ormai non più possibile perché – al momento del dunque – tra correre un rischio e scegliere il quieto vivere, i partiti di governo (e in particolare il PD, tra tutti il più esperto e consapevole, dunque il più colpevole) hanno scelto di non far nulla, di affidarsi alla roulette russa della fiducia. Serviva un grande disegno politico, si ottiene una sopravvivenza stentata grazie a una maggioranza raccogliticcia e casuale.
Ormai possono succedere solo due cose: o cade il governo, dunque è crisi al buio e probabilmente elezioni. Oppure il governo si salva ma Conte non ne trarrà alcuna lezione. Continuerà tutto come prima, solo in modo ancora più stracco, proseguendo con uno stile di governo caratterizzato dalla spettacolarizzazione dell’immobilismo, senza vita, senza passione, senza idee.
E’ proprio vero che il grigio ha 50 sfumature. E le stiamo sperimentando tutte.
Marco Cucchini | Poli@rchia (C)